Parmigiana

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Un territorio piacentino non specificato (22)[1], è l’unico dipartimento del Ducato nel quale, nel corso della rilevazione sull’agricoltura del 1771, fu rilevata l’uva parmigiana.

La parmigiana è un’uva rossa[2] “ha grano grosso e bislongo, grappoli lunghi grossi e serrati, il vino è chiaro e buono e matura coll’altre”[3].

Bramieri nel descrivere le uve piacentine nel 1788[4], affermava che l’uva fruttano di San Secondo e uva parmigiana sono sinonimi.

In effetti la descrizione del fruttano di San Secondo, riportata da Bramieri[5] è abbastanza compatibile con le caratteristiche dell’uva parmigiana, riportate dalla rilevazione del 1771[6].

Nel 1813 fu pubblicata dagli Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia, rivista curata da Filippo Re, una memoria sulla agricoltura del dipartimento del Lario, di Giuseppe Comolli, professore di botanica del R. Liceo di Como[7], in tale contesto, fra le varietà di uve nere, viene citata: “La parmesana così chiamata perché forse è originaria del parmigiano è una vite che produce molto, e che meriterebbe d’esser propagata nelle nostre vigne. Essa mette grappoli di mediocre lunghezza, ma alquanto grossi. Gli acini sono serrati, grossi, bislunghi, neri, ed hanno un peduncolo di media lunghezza, e rossiccio nel luogo di sua inserzione. Le sue foglie ampie e lobate appoggiano ad un peziolo lungo, rotondo e venato di rosso. Il vino che si ha da questa specie è buono, pieno, colorito e spiritoso. Le sue uve resistono alle intemperie essendo dure di buccia, e si conservano bene per essere mangiate nell’inverno”[8].

Nel 1843 Cherubini[9] nel suo Vocabolario Milanese-Italiano, citava l’uva parmesàna, traducendola con uva parmigiana[10].

Viala[11] riportava tre termini relativamente all’uva parmigiana: Parma, Parmigiana e Parmesana tutti sinonimi di Bresciana[12].

L’uva bresciana era citata da Adamo Fabroni[13] nel 1819 fra le uve coltivate nella Lombardia austriaca: “Bresciana. Uva dolcissima di granelli grossi, un poco appuntati, neri, che predilige il colle e fa vino delicato e durevole”[14].

Margaroli[15], nella scelta delle varietà di uve da coltivare nei territori lombardi sosteneva: “Fra noi si devono preferire le viti che i campagnuoli chiamano bresciane, cropelle, pignole, balsamine e grugnolò sì bianco che rosso, perché avendo il legno più duro e meno poroso, resistono, più delle altre specie, alle brine e al freddo. Oltre di che danno abbondante e miglior prodotto, ed essendo tardive nel produrre le loro cacciate in primavera non vanno sottoposte alle ultime brine (…) “[16]

Rovasenda[17], nel 1877, riportava la bresciana, descritta da Acerbi fra le uve milanesi, la brescianella, fra quelle lodigiane, la bressana presso Ponte Valtellina, probabilmente la bresciana[18].

Note

  1.  Archivio di Stato di Parma, Archivio del Ministro Du Tillot a 41-50 b. a 42, Bargelli Claudio, La città dei Lumi, Parma, MUP, 2020, p.174 e p.178; Bargelli Claudio, Teatro d’Agricoltura. Le campagne parmensi nelle inchieste agrarie del secolo dei Lumi, in: “Rivista di Storia dell’Agricoltura” a. LI, n.2, dicembre 2011, pp. 101-130.
  2.  Archivio di Stato di Parma, Archivio del Ministro Du Tillot a 41-50 b. a 42.
  3.  Id.
  4.  Atti della Società Patriotica (sic) di Milano, volume III, Milano, 1793.
  5.  Id. p.137.
  6.  Si veda la scheda del Fruttano di San Secondo
  7.  Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia, Tomo XVIII, aprile maggio e giugno,1813, Milano, Stamperia di Giovanni Silvestri.
  8.  Id. p.185.
  9.  Cherubini Francesco, Vocabolario Milanese – Italiano vol. IV, Regia Stamperia, 1843.
  10.  Id. p. 460.
  11.  Viala P., Vermorel V., Ampéligraphie, tome VII, Paris, Masson et C., 1909.
  12.  Id. p. 253.
  13.  Fabroni Adamo, Dell’arte di fare il vino per la Lombardia austriaca e metodi pratici per fare i migliori vini toscani, Milano, Giovanni Silvestri, 1819.
  14.  Id. p. 18.
  15.  Margaroli Giovanni Battista, Manuale dell’abitatore di campagna e della buona castalda, Milano, Ernesto Oliva Editore, 1857, quarta edizione. La prima edizione è del 1831, la seconda ampliata e corretta del 1840.
  16.  Id. pp.184- 185.
  17.  Rovasenda Giuseppe, Saggio di una ampelografia universale, Torino, Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1877.
  18.  Id. p. 40.