Cronologia del vino nel Parmense

Il grande sviluppo della produzione di vino in Italia si registra in coincidenza di un miglioramento climatico a partire dal IX sec. a. C. grazie al quale si estende l’ambiente adatto alla coltivazione della vite.

Generalmente si fa risalire la coltura della vite in Etruria alla prima metà del VII sec. a. C.

Gli Etruschi introducono presso i Golasecchiani della pianura padana, il consumo di vino.

Grazie ad un miglioramento climatico che si registra a partire dalla seconda metà del III secolo a. C., inizia la coltivazione della vite nella regione Padana.

Il consumo di vino nella colonia romana di Parma, fondata nel 183 a. C. si basa inizialmente in massima parte sulle importazioni, come testimoniato dalle numerose anfore apule da vino, riutilizzate in una bonifica del terreno nei pressi della via Emilia all’altezza della Chiesa di San Sepolcro a Parma.

Il ritrovamento in Val Taro a Riccò, di fornaci per la fabbricazione di contenitori da vino (doli e anfore), testimoniano come già pochi decenni dopo la fondazione della colonia di Parma, sono stati impiantati estesi vigneti nelle colline parmensi.

Non lontano da Riccò, a Roncolungo di Sivizzano, è attiva una stazione di posta (mansio) lungo la strada che collega le colonie di Parma e Luni, dotata di impianti per la pigiatura dell’uva e di un’ampia cella in cui si compie il processo di fermentazione. La viticoltura è ampiamente diffusa nelle colline parmensi.

Siamo informati sulle tecniche viti-vinicole dei Romani soprattutto dagli scrittori di agricoltura, ma anche da enciclopedisti e poeti. Plinio il Vecchio dedica al vino il XIV libro della Naturalis Historia.

Con la diffusione del Cristianesimo, soprattutto dopo l’editto di Costantino, il vino e il pane (simboli del corpo e del sangue di Cristo) divengono elementi fondamentali delle celebrazioni liturgiche.

La coltivazione della vite, dopo una riduzione registrata durante le invasioni barbariche, legata com’era al culto cristiano, si diffuse progressivamente con l’attività monastica e il vino divenne la bevanda principe in tutta Italia.

Una donazione al Capitolo della Cattedrale, fondato in questo anno dal vescovo Guibodo, di una piccola corte rurale per garantire il sostentamento dei Canonici, cita tre vigne vicino alla città.

Una pergamena dell’Archivio di Stato di Parma cita una vigna a Bazzano, in Val d’Enza.

Contratti citano vigne a Sorbolo e Baganzola.

Un contratto relativo ad una vigna in Collecchio descrive le lavorazioni, dalla vendemmia al ricovero nelle vasche del castello.

Giovanni (X sec.-992), primo Abate del Convento di San Giovanni ricevuto in dono un piccolo fiasco di vino, volle dividerlo fra tutti i suoi confratelli riuniti in refettorio; così lo benedisse, ne prese per sé e lo fece circolare: bevvero con lui quindici monaci, e il fiaschetto restò sempre pieno, come se nessuno lo avesse toccato. La scena viene raffigurata in un dipinto del bolognese Emilio Taruffi (1633-1696) del 1674, ancor oggi visibile sull’altare a lui dedicato nella chiesa di San Giovanni Evangelista.

Una vigna a Vigheffio, vicino alla città, è menzionata in una donazione del vescovo Sigifredo al monastero femminile di San Paolo.

Un elenco delle proprietà del monastero di San Paolo di Parma descrive “domibus, vineis, ortis, molendinis, acquisductibus” – case, vigne, orti, mulini, canali – in tutto il Parmense.

Certo “Rodulfus de Coliculo” e altri prendono in affitto alcune terre del monastero di San Paolo e si obbligano a piantare una vigna entro il giorno di San Michele, (29 settembre) e a versare ogni anno metà dei vini prodotti alle monache.

Gli Statuti del Comune di Parma regolano le attività delle varie corporazioni di arti e mestieri. La Corporazione dei “brentatori di vino” – cioè i facchini che lo trasportavano con la “brenta”, un recipiente di legno da portare a spalla – in Parma ha sede nella chiesa di San Pietro “presso la piazza nuova”. Gli stessi brentatori, utilizzando i medesimi recipienti a spalla, hanno l’incarico di portare l’acqua per lo spegnimento delle fiamme in caso di incendio.

Gli Statuti del Comune di Parma, assegnano a ciascuno dei quattro quartieri cittadini un ‘Podestà delle vigne’ coadiuvato da aiutanti per la custodia delle vigne presenti in città contro i furti e i danni degli animali.

1255 – Gli Statuti comunali di Parma prevedono che i ladri di uva vengano esposti per un giorno intero sulla piazza, alla berlina, legati ad una colonna con appesa al collo la refurtiva.

Durante l’assedio di Federico II alla città, per rimpiazzare le vigne distrutte, viene ingiunto ai proprietari di fare pergolati ai fianchi delle case.

Documenti del monastero femminile benedettino di Sant’Uldarico attestano la proprietà di una terra con vigna a Valera.

Il monastero della Religione Vecchia possiede vigne a Monticelli e Montechiarugolo.

Nel portale della Cattedrale di Parma, il mese di Agosto è rappresentato con la costruzione o la riparazione delle botti destinate a conservare il vino, mentre Settembre con la scena della vendemmia.

Giovanni da Castell’Arquato, nominato vescovo di Parma, fa coltivare a viti di Vernaccia le tre biolche di terra che la Mensa Vescovile possedeva (poi trasformate nell’orto dei Cappuccini) presso il ponte Caprazucca in città.

Sulla facciata della chiesa di Zibello, sono visibili le formelle tardo quattrocentesche raffiguranti putti vendemmiatori, realizzate da Jacopo de Stavolis (XV sec.) nella fornace della vicina Polesine. Ricordano come la coltivazione delle viti nella zona rivierasca del Po risalga ad epoca assai antica. Dalla pigiatura di quelle uve veniva ricavata la Fortana, frizzante e leggera.

Nel censimento voluto da Niccolò III d’Este, allora signora del Parmense, per l’estimo del sale vengono registrati anche i vigneti e i carri per il trasporto delle uve.

L’organista della Cattedrale di Parma, viene pagato annualmente con “otto staia di frumento, un suino di pesi sei, due staia di noci, un staio di buona fava, sei misure di vino [450 litri circa] e quattro carri di legna”.

Nel contratto del Comune di Parma con gli appaltatori del dazio vengono citati i vini forestieri commercializzati a quell’epoca in città: “Malvasia, Vernacias, Ribollas, vina recentia [vino novello], Martiatum, vinum de Romania verum et sufosticatum [Sangiovese di Romagna vero o presunto], Vinum Marchiae [delle Marche] et alia vina forensia”.

Il conte Francesco Sforza, genero del duca Filippo Maria Visconti, in visita a Parma riceve in dono dal Comune “una misura di vino” e “confezioni”, cioè dolci.

Niccolò Piccinino, luogotenente del Duca di Milano, porta in città le proprie vettovaglie, tra le quali 200 misure di vino esenti dal dazio.

Pier Maria Rossi invia un barilotto di malvasia di Sala al pittore bresciano Benedetto Bembo che sta affrescando la “Camera d’oro” del castello di Torrechiara.

L’umanista Francesco Maria Grapaldo descrive nel dettaglio vigna e cantina nel trattato di architettura rinascimentale “De partibus aedium” (Le parti della casa) pubblicato a Parma da Francesco Ugoleto.

La contessa Eleonora Rangoni, sposa di Troilo Rossi, invia da Segalara due preziosi cesti di uva Termarina (rara varietà senza semi) alla cognata Lucrezia, moglie di Camillo Rossi, conte di Corniglio.

L’architetto ducale Giovanni Boscoli da Montepulciano nel mese di luglio si porta a Carona, sopra Fornovo, nella villa estiva del Collegio dei Gesuiti per sorvegliare gli scavi in corso allo scopo di costruire una cantina.

Un libro dei conti della Casa ducale evidenzia la spesa di 3.513 scudi di Parma per il vino e, tra i dipendenti addetti al servizio, elenca “Hestor Pigna camariero et coppiero”, che ha uno stipendio annuo di 85,20 scudi; “Battista Bassi aiutante di bottiglieria” con 24 scudi; “Marco Giarbello bottigliero” con 37,20; “Ottavio Tortora bottigliero come di sopra” con 24.

Il duca Ranuccio II Farnese (1630-1694) si imbarca a Piacenza sul Bucintoro ducale diretto al porto di Sacca con la famiglia ed una nutrita compagnia di cortigiani. Accanto alla nave principale vi è, “una nave grossa dove era credenza e bottigliaria”, cioè una quantità di cibi e di vino.

Il 1° settembre il senatore Zeno, della Repubblica di Venezia, è ospite del marchese Pier Luigi Dalla Rosa Prati nella sua villa di Collecchio, dove visita il “casino” e la cantina “che piace molto”.

Il 4 ottobre il marchese Giampaolo Meli Lupi consegna al pittore Ferdinando Galli a parziale pagamento delle decorazioni della galleria grande del suo palazzo di Soragna otto carri d’uva (per un valore di quasi 950 lire).

Tra le terre che possiedono i Benedettini di San Giovanni nella zona prossima al piccolo monastero di Oppiano, risultano “due pezze di terra a vigna in Gaiano, loc. alla Becca”.

Ferdinando Galli detto il Bibbiena dipinge un pergolato d’uva sul soffitto dello scalone monumentale del palazzo Ducale di Colorno.

In occasione della visita pastorale del vescovo Camillo Marazzani, a San Martino Sinzano è ricordato un Oratorio della Madonna della Vite.

Tra le terre che possiedono i Benedettini di San Giovanni nella zona prossima al piccolo monastero di Oppiano, risulta “una pezza di terra a vigneto in Gaiano”.

Il 19 aprile i periti agrimensori di Parma, riuniti davanti ad un notaio fissano le loro Costituzioni, cioè una sorta di tariffario per le loro prestazioni, tra le quali figura anche la stima del peso o della capacità di botti, tine e carri d’uva. Il prezzo richiesto dal perito per stimare ciascun capo era di venti soldi.

Lo scultore di Corte Jean Baptiste Boudard (1710-1768) scolpisce il gruppo di Bacco e Arianna per decorare il Parco Ducale. Pampini e grappoli d’uva adornano il capo dei personaggi.

Il Primo Ministro Guillaume Du Tillot (1711-1774), “incarica l’agronomo Francesco Croce d’introdurre in un podere a Sala Baganza, ad esempio per gli altri, la coltivazione a vigneto delle viti del Monferrato, secondo la maniera di quel paese”.

Don Giovanni Battista Canali, parroco di Talignano, annota nei registri parrocchiali che “L’anno 1769 fu un anno stravagante, con sterilità di uva, quali si pagò 200 lire al carro”.

Don Giovanni Battista Canali, parroco di Talignano, annota nei registri parrocchiali che “la gran quantità di uva fece che si vendesse a tutti li prezzi, fino a uno scuto di Francia al carro”.

Alla fine del Settecento risale un importante manoscritto, oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Parma, che descrive la situazione dell’agricoltura parmigiana del tempo e che dimostra come a quell’epoca le conoscenze teorico-pratiche sul modo di migliorare l’agricoltura fossero ben note, anche se non sufficientemente diffuse.

Méderic Moreau de Saint-Méry (1750-1819), Governatore del Dipartimento del Taro in epoca napoleonica, nel maggio, tra le spese “riguardanti li Uffizi di bocca, cioè cucina, cantina e canditeria” documentate dalle carte dell’Archivio di Stato, autorizzò il pagamento: “in provvista di otto brente di vino [oltre 570 litri, una bella scorta davvero!]: 360 lire”.

I soldati dell’esercito napoleonico in transito, per far legna da ardere, nei poderi intorno a Fontevivo non solo abbattono numerosi alberi secolari, ma requisiscono persino “ammanecchie senza numero”, cioè i pali di sostegno per le viti.

La provenienza dei vini serviti alla Corte della duchessa Maria Luigia (1791-1847) in base alla documentazione d’archivio era divisa tra Parma, Piacenza, Farini d’Olmo’ (Pc), Felino, Sala e Nocetolo. “Nel 1819 il grosso proveniva da fornitori del parmense, ma si effettuò anche un acquisto a Correggio (ducato di Modena) di uva rossa pari al 9% del totale.”

Nella zona di Langhirano, secondo il Catasto di Maria Luigia, il terreno “alberato e vitato” rappresentava il 25 per cento dell’intera superficie coltivata.

Le educande e le suore del Sacro Cuore, particolarmente care a Maria Luigia (1791-1847), in villeggiatura nella Villa Lalatta di Talignano, furono invitate a vendemmiare nella tenuta del Casino dei Boschi.

Lorenzo Molossi nella sua descrizione del Ducato passando in esame i vari Comuni, per Felino scrive: “Uve buonissime”. Ottima è anche l’uva a Sala. Quanto alla Bassa, scrive che “il territorio di Zibello è tra i più grassi del Parmigiano… Raccolgonsi ivi principalmente grani e vino…”.

I quattro osti di Zibello e i due di Pieveottoville smerciavano annualmente un totale di 17.226 litri di vino.

Nell’alto Appennino parmense il vino, dove non era possibile la produzione, veniva importato soprattutto dalla Toscana, e prima dell’Unità d’Italia, era oggetto di attivo contrabbando assieme al sale e all’olio.

Garibaldi, in visita a Maiatico dal 27 al 29 aprile, si fa regalare alcune piante di Malvasia che trapianta a Caprera.

Viene scoperto il benefico effetto dell’irrorazione di solfato di rame (“verderame”) nella viticoltura.

L’abate Antonio Stoppani, nella sua opera Il bel Paese, descrivendo le caratteristiche agricole del Parmense, ricorda che sui colli cresce l’olivo e che “le viti anche durante gli inverni più rigidi non sono mai ‘atterrate’ e semisepolte, come invece in pianura”.

Don Pietro Ghironi (1815-1893), arciprete di Sala Baganza (1853-1893) e membro della Commissione ampelografica della Provincia di Parma intraprende fra i primi, la coltivazione della vite specializzata, promuovendo lo sviluppo razionale ed intensivo della viticultura parmense.

Si segnalano nel parmense i primi casi di peronospora.

Grazie all’attività della Cattedra Ambulante di Agricoltura (1892) e del Consorzio Agrario (1893) viene istituito il Consorzio antifillosserico, che studiò e fece applicare i migliori accorgimenti per combattere la devastante infestazione.

Battista Vèner, giunto da Campodolcino, in provincia di Sondrio, allestisce a Ozzano Taro una piccola distilleria (che in seguito verrà trasferita a Parma) per la produzione della grappa con le vinacce delle uve locali.

Viene constatata ufficialmente nel Parmense, a Collecchio, l’infestazione di fillossera che porterà alla distruzione della quasi totalità dei vigneti della provincia.

Galileo Chini (1873-1956), pittore, ceramista e scenografo di origine toscana, a Salsomaggiore tra il 1920 ed il 1929 per la decorazione delle Terme Berzieri, è l’autore di un ciclo di dipinti murali, dedicato al vino e al buon cibo della terra parmense nella taverna sotterranea di Villa Fonio.

Una cartolina mostra il castello di Costamezzana sopra una collina geometricamente ricamata da precisi filari di viti.

In occasione della tradizionale Sagra della Croce, nel 1936 e nel 1937 a Collecchio venne organizzata una gara ciclistica denominata “Corsa della Malvasia”.

A Fidenza la domenica 18 settembre si celebra “con grande concorso di pubblico” la “Festa dell’uva”: “In piazza Garibaldi è stato eretto un grazioso chiosco addobbato con pampini e tralci di vite, nel quale erano esposte le migliori e le più pregiate qualità di uve”.

L’8 ottobre il Duce, giunto a Parma per la consegna della “Spiga d’oro”, assaggia l’uva di un vitigno parmense che gli offre “una robusta vendemmiatrice”.

Don Pasquale Cattabianchi, parroco di Maiatico, ricorda che, “a conclusione di una grave crisi vinicola, sono state piantate parecchie viti a coltura specializzata a fianco di quelle in coltura promiscua già esistenti e questo darà certamente nuovo impulso all’industria vinicola”.

Viene costituito il Consorzio del vino dei colli di Parma.

Parma viene iscritta fra le città internazionali della vite e del vino, riconoscendo il valore storico della sua tradizione e la qualità dei suoi prodotti.