Malvagia – Malvaggia – Malvasia

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“Scacci la malinconia

Generosa Malvagia”[1].

La malvagia, nella rilevazione del 1771, voluta da Du Tillot[2], era mediamente diffusa, ma non era tra le varietà maggiormente distribuite sul territorio del Ducato, quali il terbiano fra le bianche e la fortana e il berzemino fra quelle di colore.

La malvagia, era presente in 5 dipartimenti su 24, in gran parte luoghi di collina e montagna: “Zona non specificata fra l’Enza, il Termina e la Parma. Collina e montagna, pochissima pianura (…) (1)”[3]. Così scriveva il rilevatore a proposito della malvagia: “Li nomi delle bianche sono Terbiano, Piasentina, Greco, Vernace, Durella e qualche poca Malvagia (…) La Malvagia ha il grano rotondo e grappo aperto. La maturità delle dette uve cade alla fine di settembre come nella pianura“[4]. Nel dipartimento di “Fornovo, Ozzano Taro, Piantonia; Sivizzano, Bardone, Terenzo, Goiano e Lesignano (2)”[5], territori di montagna e collina nei quali si coltivava la malvagia; purtroppo il rilevatore non aggiunse altro sulle caratteristiche della malvagia.

La terza è una: “zona non è specificata (9)[6], la malvagia in essa presente matura insieme a tutte le altre uve bianche ivi coltivate, e come queste, “produce un vino bianco robusto o forte“[7].

I terreni pianeggianti e parte collinari di “Collecchio, Sala Baganza, Vicofertile, Vigolante, Madregolo, Gaione, Talignano (14)”[8]. rappresentano il quarto dipartimento nel quale è presente la malvagiacon grano e grappo quasi consimile al moscatello [grano rotondo e grappo tra aperto e serrato] e primaticcia parimenti a maturare, ma è anco scarsa”[9].

Infine l’ultima zona nella quale fu censita l’uva bianca malvaggia,”ha grano rotondo e raro grappoli aperti ed il vino è generoso grato e durevole e matura coll’altre o poco dopo“[10], trattasi di “Territorio piacentino non specificato (22)”[11] costituito da zone montagnose, collinari e pianeggianti vicine al Po.

Nelle carte del fondo Moreau de Saint-Méry[12], conservate presso l’Archivio di Stato di Parma, è menzionata la produzione di vino santo, sia piacentino, che parmigiano; fra le uve utilizzate a tal fine: la moscatella e la malvasia[13].

Nel 1788 il piacentino Don Giulio Bramieri descrisse le uve del piacentino[14], fra esse la “Malvagia. Uva anch’essa a tutta l’Italia notissima. Notasi in quest’uva una varietà, che può ridursi, perché costante nelle successive generazioni, a diversità di specie. V’è la malvagia a grappolo assai spargolo, e la malvagia a grappolo piuttosto serrato. La prima è assai meno feconda, ma più eccellente, e la buccia dell’acino ne viene meglio aggrinzata al Sole. Anche il vitigno ne ò più rigoglioso. La seconda è fertile, succosa, ed alquanto men saporita; il suo vino, sebben dotato dell’odore medesimo, cede a quello dell’altra di sapore e di fuoco. Il vitigno di quella, oltre all’essere atto a filare, torna per la sua forza egregiamente all’albero, ma ad averne l’uve perfette, bisogna compartirne i tralci a solatio. Quello della seconda è più umile, e potrebbe atteggiarsi fino alla bassa vite. Amano entrambe aspetto caldo, ed arie apriche, terre piuttosto sciolte e mezzane anziché o molto fertili o triste.”[15]

Importante è la distinzione tra le due varietà di malvasia coltivate nel piacentino, dalla quale ricaveremo successivamente due descrizioni separate della malvagia: quella a grappolo spargolo e quella a grappolo serrato, limitandoci a riportare quanto scrisse il Bramieri, non avendo trovato ulteriori notizie su tale distinzione nel periodo storico considerato relativamente al Ducato.

Mentre nel 1752, nei vicini territori Estensi, Niccolò Caula[16], descrisse brevemente la “Malvagia: fa vino abboccato e spiritoso, ma non ha il delicato al par dell’Albana, contuttoché soffra più acqua. Ell’è di due sorta: altra somiglia alla Ghiottina, se non che ha grana più rare e grappolo alquanto minore: altra all’Albana, ma i grani sono ordinariamente grossi”[17].

Il Trattato di agricoltura[18], manoscritto anonimo, risalente al periodo fra fine XIX e inizio del XX secolo[19], riporta nell’elenco delle uve bianche: la malvagia[20] e fra le varietà di uva coltivabili negli orti, era citata la malvasia[21].

Giulio Cesare Cani, nell’elencare le varietà del guastallese in un periodo compreso fra il 1808-09[22] segnalava che la “Malvasia si coltiva solo ne’ giardini per delizia delle tavole: l’uso in grande qui non è per anco stato introdotto, onde rilevare se il clima le corrisponde”[23].

Nel 1813, un anonimo estensore di una relazione sull’agricoltura del circondario di Piacenza, pubblicata da Filippo Re[24], fra le uve bianche “più famigerate“: la Malvasìa[25].

Nel 1836, Lorenzo Foresti nel Vocabolario Piacentino – Italiano[26] tradusse il termine dialettale malvasia con malvagia[27].

Precedentemente, nel 1828, Ilario Peschieri[28], indicò fra le uve bianche il termine dialettale malvasìa, tradotto con malvasìa e malvagìa[29]. Nell’edizione del 1841 dello stesso dizionario[30], il termine dialettale malvasìa rimane con l’accento sulla i, mentre ne è priva la traduzione italiana, e rimane invariata l’altra traduzione italiana: malvagìa[31]. Nel 1859, nel Vocabolario del Malaspina[32] scompare nella traduzione italiana il termine malvagia, e il termine dialettale malvasia è uguale alla traduzione italiana, senza alcun accento in entrambe[33].

I vitigni della provincia parmense – Lunario per l’anno bisestile 1872[34], riportava, per quanto riguarda l’uva malvasia riportava la seguente descrizione: “Ha foglia mediocre, generalmente triloba di cui due poco separati e quello medio subdeltoideo e cuspidato. Il bordo è segnato da grandi denti intercalati da più piccoli, la parte superiore è di color verde scuro, liscia e sublucida mentre quella inferiore è di color verde chiaro perfettamente glabra. Il grappolo appare compatto, lungo mediamente 17 cm. E’ composto di bacche verdi gialliccie con macchie rubiginose. I semi variano da 2 a 4 ed il suo sapore è dolce ma di una fragranza speciale. Il vino che ne deriva è veramente squisito. Se ne coltivano qualità diverse, alcuni con grappoli fatti di bacche assai rade ed altre con bacche più fitte che danno comunque un vino squisito“[35].

Nei territori estensi, nel 1840, il dottor Vicenzo Bertozzi, nell’elencare le “Viti della Provincia di Reggio“[36], fra le viti di uva bianca coltivate nei campi“[37], riportava la malvasia.

Nel 1841, Savani[38], citando le migliori varietà di uva bianca da vino dei territori modenesi, menzionò la malvagìa[39].

Nel 1847, il dottor Carlo Roncaglia, nel compilare la Statistica Generale degli Stati Estensi[40], citò la malvasia fra le uve bianche di qualità fine[41].

Il catalogo del modenese Francesco Agazzotti del 1867, riportava la descrizione della malvasia odorosissima (Malvasia di Villa lunga, Malvasia aspra, Malvasia di Scandiano): grappolo piccolo, corto, ovoide qualche volta ma spesso piramidale, a grani molto radi, con graspetti appena di 3 o 4 grani cadauno; peduncolo sottile, verde e poco resistente. Acino sferico, un po’ più piccolo della Berzemina. Buccia giallo – rosso – opaca, picchiettata di punti giallo – nocella e coperta di polvere bianco – cerea: è morbida al tatto. Sugo scarso, di media densità, dolce melato, esalante il più pronunciato odore di malvasia che si conosca. Uva che ha il suo merito speciale pei vini da liquore o da dessert, qualora non si badi molto al tannino: come d’ordinario è pei vini bianchi di Scandiano, il suo aroma è molto deciso e persistente anche dopo dozzine d’anni. Però quando si desideri vino veramente delicato, non consiglierei mai la di lei abbondanza nella composizione delle uve destinate a fornire l’aroma, né vorrebbe mai impiegata se non dopo avergli fatto disseccare affatto il graspo. Non ha il difetto di alcuni moscati e di altre malvasie, di rendere cioè malagevole la chiarificazione del vino di cui fecero parte; ma d’altra parte se non era ben matura, e senza l’avvertenza della completa disseccazione del graspo, spesso conferisce troppa asciutezza in immediato confine coll’aspro difetto assolutamente imperdonabile in un vino di liquore o da mattina. La vite non è schifiltosa, ma di facile attecchimento, compensando il diminuito aroma col maggior prodotto e più succoso se in pingui terre; mentre accade l’inverso se ben soleggiata ed in aprichi asciutti colli”[42].

Il reggiano Casali[43], nel 1915 riportò il termine dialettale òva malvasia.

Adamo Fabroni[44], nel 1819, nel delineare le principali varietà di uva coltivate nella Lombardia austriaca, menzionò la malvasia, così la descrisse: “Malvasia. Granelli bianchi, lunghi, folti, dolci, odorosi, buona da mangiare e fa vin dolce“[45].

Nel 1825, Giuseppe Acerbi[46], pubblicò una monografia sulle uve della provincia di Cremona redatta da Gio. Sonsis, nella quale era presente la descrizione della uva bianca malvasia: “Malvasia. Fusto lungo, ramoso, con molto midollo. Sermenti rossicci, con articolazioni grosse, frequenti. Viticci corti, bifidi, giallicci. Foglie lancinate, profondamente sinuate, con rare dentature colle superficie piane, lisce, di un verde pallido, con vene alquanto villose, con peziolo lungo, sottile, rossiccio. Frutto giallo-verdastro; acini rotondi, pruinosi, trasparenti, rari; peduncoletti verdi, corti, fiocine liscio, astringente, duro; polpa dolce succosa. Grappolo talvolta binato; per lo più solitario; con peduncolo tenace. Semi parte bruni e parte verdi, cuneiformi, num.3. Vite feconda, primaticcia, mangereccia, e dà vino che riesce dolce e spiritoso. Proveniente dalla Spagna; ora indigena nei campi o negli orti. Si può conservare fino al principio dell’inverno. La varietà rossa non differisce che dal colore roseo”[47].

Acerbi[48] riportò anche una monografia sulle uve dei colli dell’Oltrepò pavese a cura del professor Giuseppe Moretti[49].

Fra le uve bianche, Moretti descrisse la malvasia: “3° Malvasia. Foglie leggermente trilobate, dentellate, con denti seghettati quasi eguali, interamente lisce o glabre, picciuoli lunghi dai 5 ai 6 centimetri. Grappolo piccolo, lungo e spargolo. Acino rotondo, di color giallo rossiccio. Sapore alquanto dolce e odoroso, e dà un vino odoroso, ma troppo debole“[50].

Gambini[51], nel 1850, citava i termini dialettali pavesi (uga) malvasia, valmasia[52], tradotti in italiano con malvagia, malvasia.

Nel 1828, l’abate Romani[53] a proposito dei vini prodotti a Casalmaggiore, scriveva: “Le uve che quì danno i migliori vini sono, per il bianco, la malvasia e il trebbiano (…)“[54].

Nel 1831 Margaroli[55] pubblicava il manuale dell’abitatore di campagna e della buona castalda, edizione ampliata e corretta nel 1840, pur raccomandando i coltivatori lombardi di non piantare troppa uva bianca, perché la proporzione del consumo di vino bianco era di un ottavo rispetto al rosso, fra le uve bianche scrisse che si distingueva, fra le altre, la malvasia[56].

Nel 1845 la rivista bolognese “Il Felsineo”[57], riportò il termine dialettale bolognese di malvasia, malvasì, vitis graecula ?

Nel 1606, Gio. Battista Croce[58] menzionò la Maluasia, fra le uve bianche presenti nelle montagne torinesi: “Maluasia similmente nostrale [come la precedente uva descritta: il moscatello ndr.] fa l’uva longa e folta, con grani longhi: è buona da mangiare, e da far vino, qual riesce dolce, & del sapore dell’uva“[59].

Carlo Stefano[60], a proposito della malvagia, così scriveva nel 1545: “Le viti Grecule son quelle che crescevano in Grecia, come erano come dice Columella le Psithie e le Sofortie, le quali erano al gusto assai probabili. Appo i Greci il terreno è hoggi generativo e buono e specialmente in alcune regioni, onde hora a Roma è celebrato il vin Greco, e quello che à Venetia è detto volgarmente Malvagia. Plinio scrive della vite grecula cosi – La vite grecula per bontà non è inferiore all’ Aminea, d’acino tenero, e uva cosi piccola che non può produrre se non in grassissimo suolo“[61]. Carlo Stefano, nel capitolo di Vineto, dal titolo: “Vini che hanno il nome delle regioni delle città e del terreno, nel quale nascono ottimi“[62] a proposito della malvagia precisava: “Caristio vien da Laconia e nasce in Caristo uilla celebrato da Alman Poeta, dicesi Laconico con voce generale, il Barbaro dice che fu quello à principio che oggi si dice malvagia, altri dicano Monembatico, altri Monobasire e rettamente della malvasia. Mouvesi da questo che il luogo dove si mostra in Laconia Tenaro hoggi si chiama Monobasia, che è città sotto il Senato Veneto, onde si naviga in Creta per corso diretto“[63].

Verso il 1558, il bottigliere papa Paolo III (Farnese), Sante Lancerio[64], riportava le sue impressioni sul vino malvagia: “la malvagia buona viene a Roma di Candia. Di Schiavonia ne viene la dolce, tonda et garba. Se si vuole conoscere la meglio bisogna che non sia fumosa nè matrosa [con feccia], ma che sia di colore dorato, perché, se altrimenti fosse, sarebbe grassa, et il beverla continuo farebbe alterare il fegato. De le tre sorti usava Sua Santità, la dolce alle gran tramontane a fare un poco di zuppa, la tonda per nodrimento del corpo beveva, et della garba usava gargarizzarsi per rosicare la flemma et collera. Imperò rare volte et mattine era, che S.B. non usasse per uno delli tre effetti. (…)[65].

Nel 1564, fu pubblicata l’opera dello speziale parmigiano Girolamo Calestani[66]; nel capitolo dedicato agli elettuari, quali mitridato e soprattutto la theriaca[67], la quale necessitava di buon vino, per disciogliere ed infondere i componenti della theriaca medesima. Nella formulazione più antica, si faceva riferimento a vini orientali, in mancanza di questi, al falerno.

Calestani, vide a Roma, in mancanza del falerno, utilizzare il malvatico. Inoltre lo speziale parmigiano, ricordava che nella preparazione della theriaca, alla quale assistette, nella città di Bologna, fu utilizzata la malvasia: “In Bologna (si come ci ricordiamo hora) essendo noi per vedere a quegli speciali comporre la Theriaca, ottenessimo che nel comporla, la malvasia tenesse in esso, & altri antidoti di bontà il primo luogo, & fosse viè più d’ogni altro vino eccellentissima. Ne alto vi oppugnarono contro, se non che no credevano, che tutta fusse legittima & sincera, facendo essa in piccol regione, e ne erano pure servite da Venetiani tutte le parti del mo(n)do co’ abbondanza, ma dicevano che era mista co’ altre specie di vini di quei paesi. Ma tosto gli disganassimo di qusto, comprendendo pure, che tutte le sorte di vini, con i quali era meschiata, dovevano essere ottime e generose“[68].

Nel 1697, Francesco Persio Sacconi[69], nel raccogliere i ricordi dell’esperienza lavorativa, del fratello Agostino, giardiniere per quarant’anni presso facoltose famiglie romane, citava, fra le varietà più conosciute: “La Vite di Malvasia venuta da Candia“[70].

Il fiorentino Ignazio Ronconi[71], nel 1771, descriveva la malvagia nei seguenti termini: “Malvagia. Uva bianca pendente al giallo che viene a piccoli grappoli serrati, di granella, piccole, bislunghe, e di guscio duro, I capi sono d’un colore scuro chiaro, non molto grandi, con occhi grossi, fitti, e rilevati; e i pampani un poco vellutati di sotto, e intagliati, con punte acute. Ricerca un clima molto caldo, il suolo sano, asciutto, di buon fondo grasso, e pastoso, esposto al mezzo giorno, e che non ritenga soverchiamente l’umido. Quest’uva fa ottima lega mescolata con altre; e sola fa il vino di color giallo chiaro, dolce, odoroso e spiritoso, ma non molto sciolto e sottile“[72].

Nell’anno 1800, sul Calendario Georgico[73], edito dalla Società Agraria di Torino, fra le uve bianche presentava l’uva: “4° Malvasia. Uva notissima, di cui ve n’è di due sorta, una fa i grappoli grossi, alquanto serrati, l’altra più piccoli rari, e lunghi, diventa più gialla della prima, quando è ben matura, ma non è così abbondante, tutte due convien mescolarle con altre uve di buccia sottile, e di poca forza“[74].

Nel 1829, Andrea Alverà[75], menzionava la Malvasìa, quale nome dialettale vicentino, corrispondente a Malvagìa bianca, o Grechetto dei Toscani[76].

Note

  1.  Cavezzali Buonavita, Ditirambo et altre poesie, Pisa, Leonardo Zeffi, 1627, p.4.
  2.  Archivio di Stato di Parma, Archivio del Ministro Du Tillot a 41-50 b. a 42.
  3.  Archivio di Stato di Parma, Archivio… Bargelli Claudio, La Città dei Lumi, Parma, MUP, 2020, p.173 e p.177; Bargelli Claudio, “Teatro d’Agricoltura” Le campagne parmensi nelle inchieste agrarie del secolo dei Lumi, in: “Rivista di Storia dell’Agricoltura” a. LJ, n.2, dicembre 2011, pp. 101-130.. cit.
  4.  Archivio di Stato di Parma, Archivio,,, cit.; Giorgini Paolo, Le varietà di uva presenti nei Ducati di Parma Piacenza e Guastalla dal 1771 al 1859, ricerca inedita, p.n.i.
  5.  Archivio di Stato di Parma, Archivio… Bargelli Claudio, La Città… cit. p. 173 e p.177.
  6.  Id. p. 174 e p.178.
  7.  Archivio di Stato di Parma, Archivio,,, cit.; Giorgini Paolo, Le varietà… cit.
  8. Archivio di Stato di Parma, Archivio… Bargelli Claudio, La Città… cit. p. 173 e p.177.
  9.  Archivio di Stato di Parma, Archivio… Bargelli Claudio, La Città… cit. p. 175 e p.179.
  10.  Archivio di Stato di Parma, Archivio,,, cit.; Giorgini Paolo, Le varietà… cit.
  11.  Archivio di Stato di Parma, Archivio… Bargelli Claudio, La Città… cit. p. 175 e p.179.
  12.  Archivio di Stato di Parma; Carte Moreau de Saint – Méry, b.16-17, “Agricoltura”, (1770-1810). fasc.10, s.d.
  13.  Id. p. 3. Si veda la scheda sull’uva moscatella bianca, nella quale è riportato tutta la relazione riguardante il vino santo presente nel fascicolo 10 a p. 3 della busta 17 del fondo Moreau de Saint-Méry.
  14.  Atti della Società Patriotica di Milano, volume III, Milano, 1793.
  15.  Id. p. 138.
  16.  “L’Indicatore Modenese”, 13/09/1851, a. 1, n, 11.
  17.  Id. p. 88.
  18.  Archivio di Stato di Parma, Raccolta Manoscritti, ms.138; Il manoscritto è riportato anche in: Spaggiari Pier Luigi, Insegnamenti di agricoltura parmigiana del XVIII secolo, Parma, Artegrafica Silva, 1964; Medioli Masotti Paola, Lessico di un trattato parmigiano di agricoltura (fine XVIII inizio XIX sec.) in: “Archivio Storico per le province parmensi”, quarta serie, volume XXXI, 1979, Deputazione di Storia Patria per le province parmensi, Parma, 1980; Giorgini Paolo, Le varietà di uva presenti bei Ducati di Parma Piacenza e Guastalla dal 1771 al 1859, ricerca inedita, 2021, p. n. i.
  19.  Cfr. Medioli Masotti Paola, Lessico di un trattato parmigiano di agricoltura (fine XVIII inizio XIX sec.) in “Archivio Storico per le Province Parmensi”, quarta serie, volume XXXI – anno 1979.
  20.  ASPR; Raccolta cit. f. 691.
  21.  Id. f. 437.
  22.  Biblioteca Maldotti di Guastalla, G.C. Cani, Lettere agrarie alla Colonia d’agricoltura del Crostolo, fondo Cani, busta 96, lettera XII, “Della coltivazione delle viti“, destinatario avv. Giovanni Carandini, data presunta 1808-1809. Si ringrazia, per la competenza e cortesia la dott.ssa Alice Setti della Biblioteca Maldotti di Guastalla. Si veda: Sulla condizioni agraria del reggiano nell’Ottocento. Società Agraria di Reggio Emilia, prefazione di Rolando Valli, Reggio Emilia, Antiche Porte Editrice, 2013, pp. 13-27
  23.  Id.
  24.  Anonimo, Dell’Agricoltura del circondario di Piacenza, dipartimento del Taro, Impero Francese, pp. 3-34, in: “Annali Dell’Agricoltura del Regno d’Italia, compilati dal Cav. Filippo Re”, Tomo XVIII, aprile, maggio, giugno 1813, Milano, Giovanni Silvestri, 1813, p. 22.
  25.  Id. p, 22.
  26.  Foresti Lorenzo, Vocabolario Piacentino – Italiano, Piacenza, Fratelli Del Majno Tipografi, 1836.
  27.  Id. p. 401.
  28.  Peschieri Ilario, Dizionario Parmigiano – Italiano, vol. II, R-Z, Parma, Stamperia Blanchon, 1828.
  29.  Id. p.647.
  30.  Peschieri Ilario, Dizionario Parmigiano – Italiano. rifuso, corretto, accresciuto vol. II, Parma, stamperia Carmignani, 1841.
  31.  Id. p. 1110.
  32.  Malaspina Carlo, Vocabolario Parmigiano – italiano, vol. IV, Parma, Tipografia Carmignani, 1859.
  33.  Id. p. 357.
  34.  Tintinnar di bicchieri: vini e vignaiuoli a Parma, a cura di Accademia italiana della Cucina. delegazione della provincia di Parma, Parma, Gazzetta di Parma, 2006. a p. 114 riproduzione del Lunario per l’anno 1872 ed elenco dei vitigni della provincia parmense, Parma, Tipografia G. Ferrari e figli; da p.115-128: I vitigni della provincia parmense nell’anno 1872.
  35.  Id. p.121.
  36.  Biblioteca Municipale “Panizzi”di Reggio Emilia, Manoscritto di Vincenzo Bertozzi, Viti della provincia di Reggio, MSS. REGG. D 88/23. La riproduzione dell’elenco di Bertozzi è presente in: Bellocchi Ugo, Reggio Emilia la provincia “lambrusca”, Reggio Emilia, Tecnostampa, 1982, pp. 58-59. Bellocchi ha corretto gli accenti presenti sui nomi delle varietà riportate da Bertozzi e successivamente da: Casali Carlo, I nomi delle piante nel dialetto reggiano addenda et emendanda, Reggio Emilia, Officine Grafiche Reggiane, 1926, pp. 15-16. Casali aggiunse alcune interessanti notizie sull’elenco del Bertozzi e sullo stesso Bertozzi: “L’elenco è inedito ed è di mano del dottor Vincenzo Bertozzi, membro della Società Agraria del Dipartimento del Crostolo e appassionato e valente frutticoltore. Della sua rinomata collezione di varietà e di alberi fruttiferi non rimangono più che pochissime tracce nella villa di sua proprietà alla Baragalla. L’elenco venne trasmesso dal Bertozzi al prof. Galliani, che lo aveva richiesto: non porta alcuna data ma è stato certamente compilato verso il 1840“. Casali trasmise l’inedito elenco alla Biblioteca reggiana. Rovasenda Giuseppe, Saggio di una ampelografia universale, Torino, Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1877. p. 25.
  37.  Id.
  38.  Savani Luigi, Istruzione pratica per la coltivazione della vite. in: Memorie varie risguardanti la migliore agricoltura, Modena, Tip. Vincenzi e Rossi, 1841, pp. 63-114.
  39.  Id. p. 70.
  40.  Roncaglia Carlo, Statistica Generale degli Stati Estensi, Modena, Tipografia Carlo Vincenzi, 1850.
  41.  Id. p, 420.
  42.  Id. pp.179-180.
  43.  Casali Carlo, I nomi delle piante nel dialetto reggiano, Reggio Emilia, Tipografia Bondavalli, 1915.
  44.  Fabroni Adamo, Dell’arte di fare il vino per la Lombardia austriaca e metodi pratici per fare i migliori vini toscani. Milano, Giovanni Silvestri, 1819.
  45.  Id. p. 19.
  46.  Acerbi Giuseppe, Delle viti italiane, Milano, Giovanni Silvestri, 1825.
  47.  Id. p. 37.
  48.  Acerbi cit.
  49.  Id. p. 53-62.
  50.  Id. p. 54.
  51.  Gambini Carlo, Vocabolario pavese – italiano ed italiano-pavese, Pavia, Fusi e Comp., 1850.
  52.  Id. p. 272.
  53.  Romani Giovanni, Storia di Casalmaggiore, volume I, Casalmaggiore, Fratelli Bizzarri, 1828.
  54.  Id. p. 147.
  55.  Margaroli Giovanni Battista, Manuale dell’abitatore di campagna e della buona castalda, Milano, Ernesto Oliva Editore, 1857.
  56.  Id. p. 185.
  57.  “Il Felsineo”, 04/03/1845, a. 5, n. 40.
  58.  Gio. Battista Croce, Della Eccellenza e diversità dei vini che nella montagna di Torino si fanno; E il modo di farli. Torino, Aluigi Pizzamiglio, 1606.
  59.  Id. p. 7.
  60.  Carlo Stefano, Vineto, Venetia, Vincenzo Vaugris, 1545.
  61.  Id. p. 18.
  62.  Id. p. 50.
  63.  Id.
  64.  Lancerio Sante, I vini d’Italia nel ‘5oo, s.i., Veronelli Editore, 1994.
  65.  Id. p. 49.
  66.  Calestani Girolamo, Osservationi, Venetia, Giacomo Vincenti, 1598.
  67.  Per maggiori spiegazioni sui termini si veda la scheda > malvatico rosso.
  68.  Calestani Op. cit. p. 89 (parte seconda).
  69.  Sacconi Francesco Persio, Ristretto delle piante, Vienna, Andrea Heyinger, 1697.
  70.  Id. p.122.
  71.  Ronconi Ignazio, La Coltivazione Italiana, o sia Dizionario D’Agricoltura, Tomo II, Venezia, Francesco Sansoni, 1771.
  72.  Id. p, 48.
  73.  Calendario Georgico, Torino, Società Agraria di Torino, coi tipi di Pane e Barberis, 1800.
  74.  Id. pp. 107-108.
  75.  Alverà Andrea, “Annali Universali di Agricoltura”, fasc. luglio 1829, Milano, Paolo Lampato in: Lanzani Estore, Saggio di una pantografia vicentina, Venezia, 1834, per Giuseppe Giuliani di Vicenza Ed.
  76. [1] Id. p. 61.