Nelle cantine della Rocca di Sala Baganza, al centro di una zona vocata da secoli alla produzione vitivinicola, è allestita la “Cantina dei Musei del Cibo della provincia di Parma”. È un percorso espositivo ma anche esperienziale-sensoriale, giacché si conclude con la degustazione nell’enoteca posta nei sotterranei del maniero, interamente dedicato al vino di Parma, alla sua storia e alla sua cultura. Infatti la viticultura, presente già in epoca romana, ha lasciato importanti testimonianze nel territorio parmense. L’allestimento museale lo testimonia attraverso sei differenti sezioni, una delle quali riserva spazio anche per approfondire l’affascinante storia del tappo in sughero e del cavatappi a mano o meglio, detto alla parmigiana, del “tirabusón“.
Sturare una bottiglia di vino è un rituale che ha in sé qualcosa di magico e polarizza l’attenzione dei presenti su chi svolge l’operazione. Si toglie la capsula di stagnola, si piazza la punta del cavatappi al centro del sughero, si gira spingendo e la vite (o “verme”) affonda nel tappo fino a scomparire; infine si esercita la debita trazione e il turacciolo esce dal collo della bottiglia con il caratteristico rumore secco. Resta solo da annusare il sughero, tratto fuori, per verificare se il vino “sa di tappo” o se è pronto da gustare: uno dei piaceri della vita!
Le origini
L’origine del cavatappi è databile alla metà del XV secolo, forse derivata dall’attrezzo a spirale usato dai soldati per rimuovere le palle di piombo incastrate nelle canne dei fucili ad avancarica. Secondo un’altra ipotesi il precursore dei cavatappi sarebbe il punteruolo per botti: in una pala d’altare della metà del 1400, oggi alla Gemaldegalerie di Berlino, è raffigurata una suora che con questo strumento spilla vino da una botte. La forma definitiva a noi oggi nota compare in alcuni schizzi di Leonardo da Vinci (1452-1519) presenti nel Codice Atlantico, conservato alla Biblioteca Ambrosiana, databili al periodo tra il 1482 e il 1499. La diffusione ampia e capillare del cavatappi si registra però solo dopo la metà del Seicento, con l’uso di invecchiare il vino in bottiglia promosso dagli inglesi e legato alla tecnologia di produzione delle bottiglie “nere” più robuste e regolari. Durante il XVIII secolo l’impiego sempre più diffuso di contenitori in vetro sigillati con tappi in sughero per profumi, medicinali, unguenti, inchiostri e vini favorì la diffusione del cavatappi, che divenne attrezzo d’uso quotidiano (inv. MVi 87, ambito parmense, sec. XX). Negli ultimi tre secoli, a partire dalla sua forma “essenziale”, sono state sviluppate numerose tipologie e varianti. Nel 1795 il reverendo Samuel Henshall (1765-1807) registrò in Inghilterra il primo brevetto per un cavaturaccioli, favorendo il passaggio dalla produzione artigianale a quella in serie.
Il cavatappi “moderno”
Da allora fu un susseguirsi di innovazioni e brevetti: agli inizi del XIX secolo nacque il cavatappi detto “a farfalla”; nel 1828, in Francia, quello “a rubinetto”, dieci anni dopo quello “a doppia vite”. Il primo brevetto italiano arriverà nel 1864. Nacquero poi i cavatappi “a cremagliera” o “a pignone” e quelli “a manovella”, che ricordano dei mini-macinini da caffè; il cavatappi più conosciuto, “a leve laterali”, risale alla fine dell’Ottocento. Nella raccolta esposta nel Museo del Vino di Sala Baganza i cavatappi sono suddivisi per tipologie: semplici (“a T”), a leva, multiuso, tascabili e figurati.