Nello sconfinato panorama della storia poetica italiana, furono pochi gli autori che riuscirono a raggiungere le vette liriche di Giovanni Pascoli (1855-1912), considerato ancora oggi uno dei poeti più preziosi ed emblematici della storia italiana ed europea. Dopo aver abbandonato il positivismo, Pascoli divenne uno dei campioni del movimento decadente, al pari del contemporaneo Gabriele D’annunzio (1863-1938). Nonostante l’attività letteraria del Pascoli sia ben nota ai più, in quanto difficilmente viene esclusa dai programmi scolastici attuali, alcuni aspetti “secondari” del suo lascito artistico sono meno conosciuti. Tra queste passioni spicca un particolare interesse per il mondo del vino e della vite. I biografi dell’autore ci raccontano che Pascoli tenesse molto ad avere una cantina ben fornita e che avesse un gusto particolare per la tavola e per i prodotti di alta qualità, qualsiasi essi fossero. Addirittura, durante le sue trasferte in veste di insegnante e accademico, raramente mancava di procurarsi bottiglie particolarmente pregiate tramite i numerosi contatti in tutto il Paese.
Tra vizio e piacere
Il rapporto di Pascoli con il vino fu sempre complicato, in precario equilibrio tra la passione, coltivata sin dalla gioventù a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli), e una vera e propria dipendenza dall’alcool, aggravatasi negli anni del ritiro a Castelvecchio e tra le cause principali della sua morte a Bologna nel 1912. Forse proprio per un inconscio pudore o per vera e propria vergogna dei propri eccessi, Pascoli non menzionò quasi mai il vino direttamente nelle sue opere, fatta eccezione per qualche accenno in liriche come “Germoglio”, contenuta nella grande raccolta Myricae (1891-1903):
“Il vino che rosso avanti il focolare, brilla, al fischiare della tramontana”.
Anche nella celebre I Tre Grappoli, poesia contenuta nella stessa raccolta, i riferimenti al vino sono sempre vaghi e ambigui. Pascoli preferisce riferirsi alla vite, coi suoi tralci e le sue curve, pianta da cui nasce un prodotto che è delizia dell’autore, ma che col tempo è diventato la sua croce. I versi della poesia riassumono perfettamente l’inquietudine e il sentimento di tribolazione dello scrittore, nello stile tipico del decadentismo:
“Ha tre, Giacinto, grappoli la vite. / Bevi del primo il limpido piacere, / bevi dell’altro l’oblio breve; / e più non bere; / ché sonno è il terzo, e con lo sguardo acuto / nel nero sonno vigila, da un canto, / sappi, il dolore;
e alto grida un muto / pianto già pianto”.
Le tre fasi dell’ebbrezza, affiancate appunto a tre grappoli, sono il piacere, l’oblio e, infine, un sonno nero e doloroso. Chissà che il poeta non volesse, in qualche modo, parlare della sua stessa sofferenza – mettendo in versi il lento declino dovuto alla sua dipendenza – e invitare, sé stesso e noi, a fermarci al primo grappolo.
La vite e la natura
La rappresentazione della natura è sempre vivida e suggestiva negli scritti di Pascoli, quasi a simboleggiare un rifugio dalla frenesia di un mondo caotico e crudele. Nemmeno i giorni di Castelvecchio riuscirono tuttavia a sanare le ferite di un animo estremamente fragile, logorato dal peso di un incredibile talento. Ma, come la vite è in grado, se oggetto delle dovute cure, di sopravvivere anche in condizioni impervie, la poesia di Pascoli vive nei secoli e non è mai spoglia della sua straordinaria forza. Infine, le liriche pascoliane non invecchiano, ma come il vino maturano costantemente, assumendo significati e “sapori” sempre nuovi.