Barbarossa

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L’uva barbarossa era citata nella relazione Du Tillot in un unico dipartimento: “Collecchio, Sala Baganza, Vicofertile, Vigolante Madregolo, Gaione, Talignano (14)“[1]. Fra le “uve che fanno vino rossiccio ma sono scarse” fu segnalata in questo dipartimento del Ducato, l’uva barbarossa: “col grano rotondo, ma non tutto uguale, mentre ne fa dei grossi ne fa dei piccoli e col grappo più tosto serrato“[2]. Il termine italiano barbarossa traduce nel 1836, nel Vocabolario Piacentino – Italiano di Lorenzo Foresti, l’uga rossera[3]. Nel 1859, Malaspina riporta la voce dialettale uva barbarossa, riportando lo stesso termine anche in italiano[4]. Roncaglia[5], nel 1847, per gli Stati Estensi, censì l’uva rossa comune barbarossa dei territori transpennini[6]. Nel 1781, il Regio Ispettore Agrario di Milano, il senese, padre Eraclio Landi [7], minore osservante, nella sua dissertazione sul modo di migliorare i vini mantovani, considerava le varietà di uva più adatte a quei territori, fra esse l’uva barbarossa: “II° Uva detta Barbarossa, e da altri Barbasina, e penso che alcuni la dicano Mergelana, tra le varie qualità che passano sotto questo nome; questa è Uva di color nero; ha le barbe o radiche rosse assai, e da queste pare che prenda il suo nome, e forse anche dal suo colore di rosa nella piena maturanza. Ne fa molta, di pigne belle e rade, di grani grossi, tondi, e delicati, di guscio gentile, e maturata è, come si è detto di colore di rosa. Ha le foglie poco grandi, lucide al di sopra, e un poco vellutate dalla parte di sotto, ritagliate sottilmente, col gambo gentile, e di color vermiglio. ama terra grossa, ma asciutta, e non preme che nel caldo faccia delle aperture, che non sieno eccessive, e fa bene ancora in altre terre sottili, che sono capaci di pigliar caldo. Il Vino è scelto, sottile e odoroso, ma di poco sapore, spirito, e colore, bensì ottimo a passare, non regge molto tempo solo, ma con altre Uve in giusta dose fa un’ottima lega, come sono Uve spiritose di corpo e robuste”[8]. Nel settembre del 1813, Giorgio Gallesio[9] scrisse alcune considerazioni sulle uve del pontremolese; a proposito dell’uva barbarossa: “La Barbarossa si coltiva ancora in qualche paese; essa è perfettamente la stessa che la Barbarossa di Finale a grano rotondo, interamente rosso e saporito, ma è rara e non è oggetto di vino. Poca pure se ne vede per mangiare non essendo molto curata e, dirò così non conoscendone il preggio“[10]. Sempre nello stesso periodo, Gallesio scrisse nel suo diario che a Massa trovò l’uva barbarossa, conosciuta col medesimo nome: “essa però vi è rara come in tutta la Luniggiana dove non è coltivata che per tavola“[11]. Nel 1726, il pistoiese Cosimo Trinci pubblicò L’agricoltore sperimentato ovvero regole generali sopra l’agricoltura[12], a proposito dell’uva barbarossa, Trinci, così si esprimeva: “Dell’Uva Barbarossa, e sue qualità. L’uva chiamata Barbarossa, maturata che sia, è di color rosa, ne ha molte di pigne belle, spargole. granella grosse, tonde, delicate, e di gusto gentile. Fa i capi, o siano sermenti di mediocre grossezza, di colore rossiccio, o bigio chiaro, con gl’occhi spessi. grossi e rilevati: Fa i pampini o, o sieno foglie non molto grandi, lustri al di sopra, e un poco vellutati dalla parte di sotto, rabescati gentilmente, col gambo sottile, colorito di vermiglio. Vuole il Clima caldo, il suolo grossolano. asciutto e che nella State faccia dell’aperture, ma non eccessive, ovvero altra qualità di terre più sottili atte pigliare il caldo com’è il Calastrino coll’uve secche, o il Galestro. Fa il vino scelto, sottile, odoroso, ma di poco sapore, di poco spirito, e di poco colore, matura presto per le prime beve, e per la sua delicatezza è piacevole, e gustoso a beversi solo, e mescolata questa in giusta quantità con altre sue proprie, fa buonissima lega, come si dirà in appresso”[13]. Nel 1773 Gio. Cosimo Villifranchi, pubblicava a Firenze Oenologia toscana[14], nella quale è presente la descrizione dell’uva barbarossa: “2. Barbarossa, produce grappoli di granelli grossi, e di buccia forte, i quali essendo maturi sono di colore di Rosa. Ama l’esposizione calda, ed il terreno asciutissimo come il Galestro e il Galestrino. Questa specie di Uva da per se sola produce Vino delicato, e odoroso, ma però di poco spirito. e di poco colore. Matura presto, ed il suo frutto è molto copioso”[15]. Ignazio Malenotti nel suo Manuale del Vignaiolo Toscano del 1831[16], nel descrivere l’uva barbarossa, riprendeva esattamente le parole di Villifranchi. Nel 1800, la Società Agraria di Torino, pubblicava il Calendario Georgico[17], il quale, fra le uve nere di prima qualità menzionava: “5° Barbarossa, uva da mangiare, ha i suoi favoriti, dove produce molto, e meno negli altri; vuol essere esposta a mezzo giorno, o levante; li acini sono rossi, di buccia dura: questa specie d’uva è più coltivata nella pianura, che nelle colline“[18]. Nel 1829, fra le uve di colore della provincia di Vicenza, come riportava Alverà[19], l’uva “Barbarossa dei Toscani”[20], era chiamata: “Rosseta negra, o Lumperga”[21]. Nel Repertorio d’Agricoltura[22], del medico Rocco Ragazzoni, pubblicato nel 1839, si riportava un’ampia descrizione dell’uva barbarossa integralmente tratto da: Pomona Italiana di Gallesio: “Vitis vinifera fructu suavissimo, in mensis expetito vetustatem ferente (Quintil.) racemis mediis,acinis ex-rotundo – ovatis roseo colore fulgentibus, vino elegante rubescente. sicco, levi simul et generoso, gusto gratissimo, Vulgo Uva Barbarossa (Soderini. Trinci, Micheli). La Barbarossa è la regina delle uve da serbo, e una delle migliori fra le uve da vino. È un vitigno vigoroso e fecondo che allega facilmente, il cui frutto resiste alle nebbie del giugno e alle meteore dell’autunno. I suoi tralci a nodi piuttosto frequenti portano foglie grandi e a lobi ottusi ondati sovente da una velatura di rosso che annunzia il colore dell’uva. I grappoli, di una grossezza media, non sono né pignati, né spargoli: gli acini qualche volta tondi, il più sovente ovati, sono composti di una buccia sottile, colorita di un roseo freschissimo e di una polpa molle e gentile che ha un dolce leggiero, ma grazioso che alletta il palato senza pungerlo, e che la rende gratissima in istato da frutta da mensa, Il vino che ne viene è una bevanda sottile e leggiera che rinfresca e disseta, e nello stesso tempo non lascia di essere spiritoso, sicché riesce salubre insieme e grato, ed il più adatto per le mense di famiglia (…) è da sorprendere come con questi pregi la barbarossa non sia più coltivata di quello che la vediamo, né goda la riputazione che merita. La cagione di questo obblìo sta nelle precauzioni che esige per svolgere le sue qualità. se mischiata colle altre uve essa non concorre punto a migliorare il vino. La parte zuccherina che contiene non è sufficiente per sostenere una combustione diversa dalla propria, e le qualità che la distinguono restano perdute nella concorrenza, nella quale sempre prevalgono quelle più pronunziate. Così bisogna che sia vendemmiata a parte a farne un vino separato. Né questo basta: le uve forti e quelle che soprabbondano di zuccherino, danno un vino più o meno perfetto secondo le località, ma sempre generoso e di corpo. Quello della barbarossa non ottiene la sua bontà, se l’uva non acquista la maturità più completa, e se la quantità del frutto non sia in proporzione colla forza del ceppo. Quindi è necessario che la piantagione sia fatta in poggio, in esposizione aprica, a ceppi bassi, o a filagne, e potata con moderazione. (…) Tali sono i caratteri della barbarossa come una da vino. Essa ha degli egualmente interessanti anche come uva da mensa. Molte sono le varietà che formano questa classe di uve. I Toscani vantano l’uva regina e il San Colombano, i Napoletani la cattelanesca, I Bolognesi la paradisa, i Romani il pizzutello (galletta) i Genovesi il vermentino e la verdepolla, i Piemobtesi l’erba-luss, i Francesi il chasselas, tutta l’Europa finalmente le lugliatiche (compresa l’uva greca o laciniata) e i moscati e primi fra questi la salamanna. Nessuna di queste eguaglia nell’insieme la barbarossa. I moscati allettano pel loro profumo e le lugliatiche per la loro precocità, altre per la dolcezza della loro polpa, altre finalmente pel volume dei loro acini e per la durata. La barbarossa riunisce tutti questi pregi. Non ha il profumo dei moscati, né è così dolce come il vermentino e la cattalanesca, ma il suo dolce è più gentile e non manca d’aroma. Ciò che la mette al di sopra di tutte è il suo colorito e la proprietà di conservarsi per tutto l’inverno. (…) “[23] Rovasenda [24] sosteneva che varie e differenti uve si coltivavano in Italia con il nome barbarossa, e le elencò: 1) Barbarossa, Acerbi la riporta fra le uve delle Cinque Terre, fra quelle toscane. Trinci pure fra quest’ultime. 2) barbarossa a foglie cotonose. È quella di Finalborgo, Liguria, descritta da Gallesio, differente da quella piemontese e da quella toscana 3) barbarossa a foglie incise, vedesi barbarossa del Piemonte, 4) barbarossa Barletta, Bari e Puglie, 5) barbarossa di Cornegliano. Alba. Identica alla piemontese 6) barbarossa di Favara, Rovasenda non era sicuro dell’esattezza di questa denominazione. 7) barbarossa di Lucca. Si ci riferisce a Trinci. Differente da quella del Piemonte a Rovasenda parve che corrispondesse esattamente alla descrizione di Trinci, pertanto egli credette trattarsi della barbarossa toscana, molto bella, probabilmente quella descritta da Acerbi. 8) barbarossa di Ruggiero. Napoli Orto Botanico, (sono due, probabilmente diverse). 9) barbarossa nera, seguita da un punto interrogativo di Rovasenda.10) barbarossa ovale, Rovasenda notava che sia la piemontese quanto la ligure sono ovali. 11) barbarossa piemontese, “(…) La crederei la migliore. È un’uva squisita, elegante, per la mensa, ed assai serbevole, che si vende in Torino nell’autunno e nell’inverno a molto maggior prezzo delle altre uve (…)”[25] 12) barbarossa sarvaggia, descritta da Acerbi come un pessimo vitigno di Termini (Sicilia). 13) barbarossa verdona, Liguria (Odart). Rovasenda la credeva uguale a quella di Finalborgo, e sosteneva che rimaneva verdona solo per qualche incidente di coltivazione; l’aveva coltivata e non notò tale colorazione. Il vitigno barbarossa, era presente nella collezione francese M.V.Pulliat[26]: “Barbarossa (Piémont). Bgt [Bourgeonnement] grenat, légèr. duveté; flle [feuille] moy. très-profondém. découpée. glabre supér., d’un beau jaune au soleil, blanc verdatre à l’ombre, à peu prés rond. Raisin de table d’une belle apparence et d’une longue conservation”[27]. Pierre Viala[28], nel 1909 riportava: 1) L’uva Barbarossa quale sinonimo di Danugue, rimandando al II volume dell’Ampelographie, per una più estesa trattazione, corredata da una bella riproduzione del grappolo dell’uva in questione[29]. Nel volume II, a proposito del Danugue o Gros Guillaume, conosciuto in Provenza da tempi remoti e coltivato ovunque, si afferma che il Gros Guillaume è coltivato nelle serre francesi e straniere sotto il nome di Barbarossa, quest’ultimo è un vitigno italiano con ben differenti caratteristiche, rispetto al Danugue[30],”2) B. à feuilles découpées – Séparée por V. Pulliat, Rovasenda et G. Molon du Danugue sous le nom aussi commune de Barbarossa du Piémont, feuilles grandes, avec un duvet court et rade sur les nervures de la face inférieure; grappe moyenne, cylindro – conique, lache; à grains sub – sphériques, de moyenne grosseur, à peau d’un rouge clair, maturité de 3° époque, trés cultivèe aux environs de Turin pour la table et comme raisin de conserve. 3) B. à feuilles cotonneuses – Pulliat rapproche ce cépage du Chasselas rose; G. Molon le considére comme bien spécial; le grain surmoyen est sub – ellipsoide, à chair ferme et juteuse, à peau d’un beau rose pruiné, à maturité de 1 époque tardive. 4) B. barletta – Décrit comme spécial aux Pouilles et à Bari; 5) B. de Cornegliano (B. a feuilles cotonneuses); 6) B. de Favara (Danugue); 7) B. di Liguria (B. a feilles cotonneuses); 8) B. di Lucca (B. di Toscana); 9) B. du Piémont (B. a feuilles découpées), 10) B. nera (B. de Toscane) 11) B. ovale (B. a feuilles découpées) 12) B. piemontese rossa (B. a feuilles découpées); 13) B. savaggia – Citée par Acerbi comme spéciale à la Sicile et de qualité trés inférieure; 14) B. di Toscana G. Molon et J de Rovasenda estimen que cette B. différe des autres per ses grandet grappes, atteignant des dimensions énormes, et ses grains plus colorés. 15) b. verdona (B. a feuilles cotoneuses)”[31].

Note

  1. Bargelli Claudio, La città dei lumi, Parma, 2020, MUP, p.175, Bargelli Claudio, “Teatro d’Agricoltura” Le campagne parmensi nelle inchieste agrarie del secolo dei Lumi, in: “Rivista di Storia dell’Agricoltura”, a. LI, n.2, dicembre 2011, pp. 101-130.
  2. Archivio di Stato di Parma, Archivio del Ministro Du Tillot a 41-50 b. a 42.
  3. Foresti Lorenzo, Vocabolario Piacentino-Italiano, Piacenza, 1836, Fratelli de Majno Tipografi, p. 401.
  4. Malaspina Carlo, Vocabolario Parmigiano – Italiano, volume quarto, Parma, 1859, Tipografia Carmignani.
  5. Roncaglia Carlo, Statistica Generale degli Stati Estensi, volume secondo, Modena, 1850, Tipografia di Carlo Vincenzi. 
  6. Id. p. 421.
  7. Landi Eraclio, Dissertazione sopra il quesito Se vi siano mezzi opportuni di migliorare i vini mantovani, e anche renderli atti a lunga navigazione per mare, Mantova, 1781, Eredi di Alberto Pazzoni.
  8. Id. pp.23-24.
  9.  Gallesio Giorgio, I giornali dei viaggi, Firenze, 1995, Accademia dei Georgofili.
  10. p. 52.
  11. Id. p. 55.
  12. Trinci Cosimo, L’agricoltore sperimentato ovvero regole generali sopra l’agricoltura, tomo I, Venezia, 1783, Giovanni Gatti.
  13. Id. p. 55.
  14.  Villifranchi Gio. Cosimo, Oenologia toscana, volume primo, Firenxe, Gaetano Cambagi Stampatore, 1773.
  15. Id. p. 91.
  16.  Malenotti Ignazio, Manuale del vignaiolo toscano, Colle, 1831, Tipografia Pacini e Figli.
  17.  Calendario Georgico, Torino, 1800, Società Agraria di Torino pei tipi di Pane e Barberis.
  18. Id. p. 100.
  19.  Alverà Andrea, Annali Universali di Agricoltura, fasc. luglio 1829, Milano, Paolo Lampato; in: Lanzani Estore, Saggio di una pantografia vicentina, Venezia, 1834, per Giuseppe Giuliani di Vicenza Ed. p. 61-62.
  20. Id. p. 62.
  21. Id.
  22. Ragazzoni Rocco, Repertorio d’agricoltura e di scienze economiche ed industriali, tomo IX, Varallo, 1839, Teresa Rachetti vedova Caligari.
  23. Id. p. 410-413.
  24. Rovasenda Giuseppe, Saggio di una ampelografia universale, Torino, 1877, Tipografia Subalpina di Stefano Marino. Tutte le varie barbarossa, si trovano a pp.28-29, per altre eventuali, sarà indicata la pagina.
  25. Id. p. 29.
  26.  Descriptions & Synonymies des varietés de vignes cultivées dans la collection de M.V. Pulliat a Chiroubles, Lyon, 1868, Imprimerie du Salut Public.
  27. Id. p. 13.
  28.  Viala P., Vermorel V., Ampélographie, tome, VII, Paris, 1909, Masson et C.
  29. Id. p. 38.
  30. A. Tacussel. E. Zacharewicz Danugue, in: Viala P., Vermorel V., Ampélographie, tome II, Paris, 1909, Masson et C., pp. 166-169.
  31.  Viala P., Vermorel V., Ampélographie, tome VII… cit.