Le interviste impossibili- A cura di Giovanni Ballarini- Giuseppe Garibaldi viticultore e la malvasia di Maiatico

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Il 17 marzo 1861 a Torino è proclamato il Regno d’Italia e il 27 marzo 1861, dopo il discorso di Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) la Camera proclama Roma capitale d’Italia, che tale diviene nel 1871 quando i Savoia vi trasferiscono l’intera Corte.

Giuseppe Garibaldi (1807-1882) che il 26 ottobre 1860, lungo la strada che porta a Teano, ha consegnato a Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878) la sovranità sul Regno delle Due Sicilie appena conquistato, è nella sua isola di Caprera dove si ritira il 9 novembre partendo da Napoli con il piroscafo americano Washington.

Il 18 aprile 1861 Giuseppe Garibaldi è però a Torino dove alla Camera del Regno d’Italia presenta il progetto di istituzione di una guardia nazionale mobile, dove sarebbero confluiti i volontari dai diciotto ai trentacinque anni, affermando che il brigantaggio nel Mezzogiorno è una questione sociale, che non si può risolvere con il ferro e con il fuoco, individuandone i responsabili nel Governo e nella borghesia.

Amareggiato per il rifiuto della sua proposta, ritorna a Caprera non senza aver prima incontrato diversi amici e tra questi il marchese Gaspare Trecchi (1813-1882) che vive a Maiatico nel comune di Sala nei pressi di Parma. Questo patriota italiano, membro dell’esercito sardo nella prima guerra di indipendenza, nel 1859 capitano dei Cacciatori delle Alpi, aiutante di campo di Vittorio Emanuele II e nella Spedizione dei Mille con Garibaldi è intermediario tra questi e il re. Il 27 aprile 1861 il Generale arriva in treno alla stazione di Castelguelfo e, immediatamente riconosciuto nonostante viaggi in incognito, una volta giunto alla dimora della marchesa Teresa Trecchi Araldi, sorella del suo amico Gaspare Trecchi, dove si ferma fino al 29 aprile 1861, è oggetto di continue visite e omaggi da una sterminata folla che affluisce da ogni dove.

In questa occasione, e durante una pausa delle visite, intervistiamo il Generale su un tema che si sa a lui caro, lo sviluppo agricolo del suo rifugio: l’Isola di Caprera.

Gentile Generale la ringrazio per un’intervista in questo bellissimo giardino e all’ombra di questo meraviglioso castagno, mentre gustiamo insieme un bicchiere dell’ottima Malvasia dei vigneti di queste terre. Non voglio tediarla su argomenti di guerra e tanto meno politici, ma su un tema a Lei caro: come sta trasformando la sua amata isola di Caprera.

Sono un uomo di mare e molte terre, ma ho radici italiane, molto ho viaggiato e da tempo mi ero innamorato di Caprera, una piccola isola dell’arcipelago sardo di La Maddalena, che il 29 dicembre 1855 con l’eredità di mio fratello Felice ho potuto acquistare dai coniugi inglesi Richard e Emma Collins. Un’sola petrosa e pascolo di capre, come dice anche il nome, che è divenuta il mio rifugio e che assieme a un gruppo di amici sto trasformando, costruendo prima una casupola, poi un’abitazione nello stile delle fazenda sudamericane, dove ho conosciuto la mia amata Anita, ma soprattutto dove posso dare libero sfogo alle mie propensioni di agricoltore e allevatore.

Quali piante e animali sta inserendo nella non facile, immagino piccola isola?

Una volta acquistata la mia isola, trascorro i primi mesi in tenda, poi con l’aiuto di mio figlio Menotti (1840-1903) e dell’amico Felice Origoni di Arese e di altri compagni d’armi, ristrutturo un rifugio dismesso di un pastore sul pendio del monte Tejalone – il più alto dell’isola – vicino al porto Taviano. Inizia così un lungo lavoro per addomesticare e rendere produttiva una terra che al momento del mio arrivo è una radura arida e inospitale, con rovi, ginepri e mirti fra gli interstizi delle rocce. Nella piana della Tola pianto e continuo a piantare molti alberi, soprattutto della macchia mediterranea e tra questi ginepro, pino e anche l’esotico eucalipto, tutte piante strettamente connesse con la bonifica del suolo. Molte anche le piante da frutto utili anche per la produzione di conserve e marmellate e conto di arrivare ad un uliveto con circa cento alberi d’ulivo con il quale produrre olio e un vigneto con un vitigno dal quale ottenere vino di Zibibbo. Nei campi sto coltivando frumento e anche granoturco. Di pari passo sto allevando polli, capre, maiali, cavalli tra i quali ha un posto d’onore Marsala, la mia fedele cavalla bianca. Vi sono anche molti asini ai quali ho dato il nome di coloro contro i quali ho dovuto combattere: i più recalcitranti li ho chiamato col nome di papa Pio IX, Napoleone III e Don Chico (l’Imperatore Francesco Giuseppe). Si tratta per me di un lavoro nuovo, che eseguo preparandomi sui libri di una biblioteca che sto costruendo a Caprera sulle novità della tecnologia agraria e dell’agricoltura più avanzata, dedicando grande cura anche a ogni pianta, alcune delle quali a me più care vorrei servissero per una pira nella quale essere bruciato dopo la mia morte. Senza disdegnare le api che producono miele, di tutto prendo nota in quaderni e nel mio diario dove a fianco delle annotazioni giornaliere ricordo la ricorrenza di avvenimenti del mio passato come l’8 febbraio 1860 riparo l’abbeveratoio mentre è l’anniversario di quando nel 1846 nell’Uruguay guidai la battaglia di Sant’Antonio del Salto, il 15 maggio si sega il prato ed è l’anniversario dello sbarco a Marsala nel 1860, il 1 ottobre nasce un vitello proprio nel giorno anniversario della battaglia del Volturno del 1860. Ho anche fatto costruire un mulino a vento per macinarvi il grano per il consumo della mia famiglia. Questo macchinario, che metteva in movimento, alla bisogna, anche una trebbiatrice e un frantoio da olive, è stato approntato e mi è stato poi donato da un parmigiano indimenticabile, Edoardo Barberini (1826-1903) che mi aiutò a fuggire dall’isola nel 1860. Mentre io, condotto dallo Sgarallino, approdavo a Livorno, il Barberini, vestito coi miei abiti, capelli e barba finta, fingeva di passeggiare sulle coste, eludendo per diversi giorni la sorveglianza della squadra navale italiana che mi teneva sotto controllo.

Vedo che sta gustando la Malvasia di Maiatico e mi ha detto che a Caprera sta impiantando un vigneto, quindi smentisce la diceria che circola e cioè che Lei sia astemio.

Che io sia astemio è una chiacchiera come tante, mentre è vero che io sono parco nel bere come nel mangiare e per quanto riguarda i vini apprezzo quelli buoni, come spero di fare a Caprera con lo Zibibbo, perché a me piacciono soprattutto i vini dolci e non c’è aroma più delizioso, non c’è nettare più allettante di questa Malvasia di Maiatico che stiamo gustando e che ho imparato a conoscere in questo magnifico soggiorno. Per questo le confido che ieri sera sono stato ospite della marchesa Teresa Araldi-Trecchi, una signora bella, colta e anticonformista e della quale mi sono quasi innamorato, pronubo anche il vino, l’ottima Malvasia che mi ha offerto. A fine cena la marchesa mi ha anche promesso di regalarmi alcuni vitigni da innestare a Caprera. Nel ringraziare la marchesa le ho promesso che la terrò informata dell’esito del loro impianto, ma sono sicuro che questo vino mi renderà più felice unitamente agli altri abitanti dell’isola con un’abbondante produzione, perché queste viti di Maiatico che oggi ho avuto modo di visitare sono esenti da qualunque malattia. La Malvasia infatti, come lo Zibibbo o Moscato d’Alessandria d’Egitto sono vitigni mediterranei e lo Zibibbo che ho già iniziato a coltivare a Caprera accoglierà con immenso piacere la Malvasia di Maiatico e ad entrambi i vitigni e vini facciamo un brindisi!