“Trebbiano bianco: il suo vino è assai spiritoso; se diviene brusco lo diviene di modo che fa girare il capo a chi ne beve, per lo più si marita con altre uve bianche“[1].
Così scriveva l’ingegner Giulio Cesare Cani nel periodo compreso fra il 1808 e il 1809, in una sua corrispondenza con l’avvocato Giovanni Carandini[2].
L’uva da vino trebbiano bianco era presente nel 1838 nel vivaio di Piacenza di Pietro Maserati[3].
Agazzotti, così descriveva nel suo catalogo[4] l’uva Trebbiana (Tribbiano, Terbiano bianco comune): “Grappolo voluminoso a sufficienza: tra conico e il cilindrico: picciuolo ben robusto, più spesso rossigno: tutto il graspo poi ben pronunziato. Acino sferico, medio, ma piuttosto piccolo. Buccia di un bel giallo d’oro, se in collina: ma spesso anche di un giallo annuvolato, specialmente se in pianura: e quasi sempre non traslucida. Sugo consistente, agretto, dolce, piccante, quasi inaromatico, abbondante di principii albuminoidi. Uva comunissima nelle colline modenesi e molto riputata: perloché trova sempre esito molto elevato a pari delle uve più fine. Figura pure fra le prime nella confezione dell’alcol: ma ben di rado si adopra da brucio, perché è riservata a molteplici usi più proficui. Delle varietà più tardive destinasi il sugo a conciare i vin così detti da famiglia (specialità modenese): i quali, in tal modo rinforzati, affrontano incolumi l’estiva stagione: persino il quartarolo (vino che vale lavatura di graspi) se colla stessa conciata riesce un buon vino. Sola, coll’aggiunta del triplo d’acqua, dà vino eccellente, molto atto a dissetare nella estiva stagione, durevole anche per più anni. Unita ad alcune lambrusche di collina, per solito tanto abbondanti in materia colorante, ed aggiungendo al mosto un terzo d’acqua di fiume, può aversi un buonissimo vino da mercanzia. Infine è impareggiabile per la confezione dell’aceto balsamico modenese (…) La vite si adatta alla massima parte de’ terreni vitiferi, ma teme molto i sortumosi, e male allega in quelli dominati dalle nebbie, perciò ama i colli aprichi, ed infatti ivi siede regina. Se ne conoscono più varietà cioè: trebbiana romana, trebbiana fiorentina, trebbiana di Spagna, trebbiana rossa, trebbianina, trebianella, ecc.”[5]. Ricordiamo che un vino denominato: trebianum, era riportato nel testo di fine Quattrocento: De partibus aedium[6] del parmigiano Francesco Maria Grapaldo. Sempre nella stessa opera si nominava un’uva trebiana[7].
Negli Statuti di Imola del 1334[8] era presente un “vinum Tribiani“[9].
Note
- Biblioteca Maldotti di Guastalla, G.C. Cani, Lettere agrarie alla Colonia d’agricoltura del Crostolo, fondo Cani, busta 96, lettera XII, “Della coltivazione delle viti“, destinatario avv. Giovanni Carandini, data presunta 1808-1809. Si ringrazia, per la competenza e cortesia la dott.ssa Alice Setti della Biblioteca Maldotti di Guastalla. Si veda: Sulla condizione agraria del reggiano nell’Ottocento. Società Agraria di Reggio Emilia, prefazione di Rolando Valli, Reggio Emilia, Antiche Porte Editrice, 2013; pp. 13-27.
- Id.
- Stabilimento Orticola di Pietro Maserati a Piacenza, Suplimento, Piacenza, Antonio Del Majno, 1838.
- Agazzotti Francesco, Catalogo descrittivo delle principali varietà di uva coltivate presso il Cav. Avv. Francesco Agazzotti del Colombaro, Modena, Tipografia di Carlo Vincenzi, 1867 in: Montanari Gian Carlo, Malavasi Pignatti Morano, Uve modenesi tra XVIII e XIX secolo, Modena, Edizioni Il Fiorino, 2018.
- Id. pp. 206-207.
- Grapaldo Francesco Maria, De partibus aedium, Si veda anche; Vignali Luigi, Il lessico “neoterico” di Francesco Maria Grapaldo, Parma, Deputazione di Storia Patria per le Province Parmensi, 2005, p.111.
- Id.
- Sella Pietro, Glossario Latino Emiliano, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1937, p. XVII,
- Id. 392.