Le interviste impossibili – A cura di Giovanni Ballarini – Louis Pasteur cambia la storia del vino

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Un’antica leggenda narra che nei musei, sotto il patronato di Apollo, la notte del solstizio d’estate le Muse richiamano in vita le immagini e danno voce agli oggetti che si fanno intervistare. In una di queste occasioni, un ritratto di Louis Pasteur conservato al Museo del Vino di Sala Baganza mi permette di intervistare il grande scienziato francese e di conoscere i segreti della sua attività sperimentale che ha cambiato completamente il mondo della produzione del vino.

LOUIS PASTEUR CAMBIA LA STORIA DEL VINO

Il XIX secolo registra importanti nuove scoperte scientifiche nell’agricoltura e nell’alimentazione e l’origine dell’industria alimentare. Il chimico tedesco Justus von Liebig (1803-1873) scopre l’importanza dell’azoto e di altre sostanze per la vita delle piante e nel 1840 con Joseph Henry Gilbert (1817-1901) inventa un estratto di carne. L’olandese poi naturalizzato italiano Jacob Moleschott (1822-1893) nel 1850 pubblica La scienza dell’alimentazione in due versioni, una per la comunità scientifica e una destinata al popolo per informarlo sul valore nutrizionale e sulla funzione di ogni cibo (carne, uova, pane, torte, piselli, fagioli, lenticchie, patate, barbabietole, cavoli e altra frutta e verdura), bevanda (acqua, latte, tè, caffè, cioccolata, birra, vino, grappa), e condimento (sale, pepe, senape, zenzero, burro, olio di oliva, aceto, zucchero, formaggio), parlando di diete, dell’importanza della prima colazione, del ruolo del pranzo e della cena, e della nutrizione secondo l’età, le abitudini, lo stile vita (attivo o sedentario) e le stagioni. Il chimico francese Louis Pasteur (1822-1895) con Claude Bernard (1813-1878) negli esperimenti pubblici del 20 aprile 1862 e del 7 aprile 1864 dimostrano errata la teoria della generazione spontanea, dando una base scientifica microbiologica ai fenomeni di fermentazione e conservazione degli alimenti anche attraverso il procedimento della loro pastorizzazione. La prima applicazione da parte di Pasteur di questa tecnica, su incarico di Napoleone III, risale al 1863 sul vino, dimostrando la possibilità di trasportarlo su lunghissime distanze, con ovvi vantaggi per le esportazioni francesi, applicando poi il medesimo procedimento all’aceto e poi alla birra, mentre altri ricercatori applicheranno la pastorizzazione ad altri alimenti e tra questi nel 1886 anche al latte (Franz Ritter von Soxhlet, 1848-1826). Louis Pasteur ci concede un’intervista presso l’Istituto che grazie ad una sottoscrizione internazionale fonda a Parigi nel 1887.

Gentile Maestro, come originano le sue ricerche che stanno portando a importanti innovazioni nella prevenzione delle malattie infettive e nella qualità degli alimenti?

Dopo le mie ricerche sulla cristallografia all’Università di Strasburgo, nell’Università di Lille inizio a studiare con metodi scientifici i problemi di qualità dell’alcole ottenuto dalla fermentazione della barbabietola, dedicando la mia attenzione ai lieviti. Già alla fine del neolitico ci si accorge che taluni alimenti, come l’impasto dei cereali, i succhi d’uva, il latte e altri sono soggetti a mutamenti, detti fermentativi, e trasformati in pane e birra, vino, latte acido e formaggi. Poi gli antichi Babilonesi e Egiziani producono birra, gli antichi Greci e Romani il pane e il vino secondo metodi empirici attribuendo le caratteristiche di quanto ottenuto, e soprattutto le anomalie a “malattie” di questi cibi, a influssi astrali come le fasi lunari o a interventi più o meno malefici, come la presenza di donne in fase mestruale, da prevenire con riti e scongiuri. Neppure gli scienziati, compresi i primi chimici, da Philippus Bombastus von Hohenheim detto Paracelso (1493-1541) al chimico Robert Boyle (1627-1691), trovano spiegazioni convincenti delle fermentazioni e loro anomalie, nonostante la conoscenza dei lieviti individuati con i primi rudimentali microscopi di tipo ottico prodotti nei Paesi Bassi alla fine del XVI secolo e migliorati a partire dal XVII secolo da Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723). Quando inizio i miei studi si pensa che nella fermentazione il lievito abbia solo un ruolo passivo, ma i miei esperimenti dimostrano che il lievito è un microrganismo vivente che provoca la fermentazione, risultato di un processo biologico piuttosto che chimico, aprendo un nuovo campo della microbiologia e sfatando l’idea secolare della generazione spontanea e cioè che in determinate circostanze alcune forme di vita, come ratti e mosche, possano derivare spontaneamente dalla materia non vivente. I risultati di queste ricerche sulle fermentazioni degli alimenti mi permettono di cambiare le idee sulle malattie infettive degli animali e dell’uomo, dimostrando come siano causate da microrganismi e quindi rivoluzionando i sistemi di diagnosi, prevenzione e cura anche con la produzione di vaccini.

Perché Lei ha indirizzato le sue ricerche al vino?

Per molti secoli, il vino è un argomento esclusivo dei vignaioli, che riescono a trasmettere, di generazione in generazione, tecniche empiriche spesso molto raffinate per riuscire ad ottenere il meglio dai loro vigneti: selezione di territori, di tagli, lavori particolari nei vigneti. Rituale che si svolgeva nel fondo delle cantine, la vinificazione sembrava quasi una magia. Nel 1854 presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Lille, città epicentro birrario francese, mi occupo della fermentazione delle bevande alcoliche e nel 1856 un birraio di nome Bigo mi chiede di risolvere il suo problema: molte delle sue birre irrancidiscono. Con le mie ricerche scopro che l’inacidimento non è frutto del caso o della magia, ma che ne sono responsabili i lieviti selvaggi, scoprendo anche i metodi per il loro controllo e come eliminarli. Successivamente, nel 1863 ricevo la lettera da uno degli aiutanti di Napoleone III (1808-1873) che mi commissiona lo studio del deterioramento del vino, una questione di grande urgenza in Francia, dove il vino è parte integrante della cultura alimentare e di grande importanza per la prosperità economica della nazione. L’aiutante mi scrive inoltre che l’Imperatore è fermamente convinto che sarebbe della massima importanza rivolgere l’attenzione al momento della vendemmia. Per questo affronto il problema in diverse località francesi dove si produce vino, giungendo alla conclusione che non vi è una sola cantina in tutta la Francia che possa dirsi completamene sana e che vi è una gigantesca microflora all’interno dei tini utilizzati per la fermentazione del vino. Prendendo spunto dalle mie ricerche sulla birra, sviluppo un metodo di riscaldamento del vino per rallentare la crescita microbica e prevenire il deterioramento senza distruggere le sue caratteristiche. Il vino è un alimento molto delicato, se è riscaldato diventava imbevibile e per questo, dopo diversi tentativi, nel 1862 scopro che cinquantacinque gradi centigradi è la temperatura che inibisce la flora microbica fermentativa, mantenendo le caratteristiche del vino e brevetto il metodo conosciuto come pastorizzazione, applicabile anche ad altri alimenti. Già nel 1795 Nicolas Appert (1749-1841) era riuscito a conservare vari tipi di alimenti chiudendoli in contenitori ermetici di vetro e riscaldandoli con immersione in acqua bollente, ma sono io il primo a provare la relazione fra le alterazioni dei cibi a contatto con l’ambiente esterno e la presenza di microrganismi, confermando che il calore può essere usato per distruggere questi microrganismi, dando una spiegazione scientifica alle osservazioni empiriche di Appert e altri. Il procedimento di sterilizzazione parziale del vino che sarà descritto anche come pasteurizzazione è nato il 1° maggio 1865, quando presento all’Accademia delle Scienze una nota intitolata «Procedimento pratico di conservazione e di miglioramento dei vini». Nel 1866, consegno a Napoleone III l’opera nella quale si trovano riassunti i miei risultati, che segnano l’inizio della microbiologia enologica e che aprono la strada alle mie successive ricerche sulle malattie infettive e la teoria dei germi. Penso infatti che le mie osservazioni relative alla contaminazione microbica dei vini abbiano un rapporto con le modificazioni che si producono nei tessuti animali producendo malattie infettive.

Oltre alle malattie del vino, perché Lei si è anche interessato al suo invecchiamento?

Avevo famigliarità con i vignaiuoli del Jura, poiché i miei genitori avevano una casa ad Arbois, ma ero lontano dal possedere una conoscenza estesa sulle malattie e sull’invecchiamento del vino, avendo lasciato la regione di Arbois per i miei lavori e il mio insegnamento e vi tornavo sporadicamente, in occasione delle vacanze. I vignaioli vedevano la causa delle malattie del vino in una sorta di invecchiamento troppo spinto, ma interessandomi del ruolo dell’aria in questo invecchiamento mi accorgo che in realtà è un fenomeno molto complesso. Confrontando l’evoluzione di un vino nuovo posto in tubi a contatto o non a contatto con l’ossigeno dell’aria dimostro che da una parte l’ossigeno può favorire lo sviluppo di micro-organismi nocivi, d’altra parte contribuisce ad eliminare l’acidità del vino nuovo e se l’ossigeno conferisce al vino vecchio la sua qualità, gliela fa anche perdere se la sua azione si prolunga per troppo tempo.

Ritiene che la sterilizzazione parziale sia l’unico sistema da usare in enologia? Quale è il ruolo della ricerca scientifica applicata nella produzione dei vini?

I trattamenti del vino con il calore hanno diversi limiti e sono sostituibili con un’igiene rigorosa che raccomando calorosamente durante le vendemmie e la vinificazione, applicando al vino i risultati delle ricerche scientifiche. Su queste nel 1872, e così rispondo alla sua domanda, durante un congresso di viticoltori, ebbi modo di dire loro che “Non esiste una categoria delle scienze alle quali si possa dare il nome di scienze applicate. C’è la scienza e le applicazioni della scienza, collegate tra di loro come il frutto e l’albero che lo ha portato”.