L’attrezzo è una sorta di gerla-bigoncia da portare a spalla, costituita da un alto recipiente a sezione ovale, più largo alla sommità e rastremato alla base, fatto di doghe assicurate tra loro da cerchi di metallo. Alla parete appiattita sul lato che si appoggia al dorso del portatore sono fissati due spallacci di corda. Presente dall’epoca preromana in quasi tutta l’Italia settentrionale, si usava, come informa il dialettologo ed etnografo P. Scheuermeier, per il trasporto dell’uva, del mosto e del vino.
Durante la vendemmia i raccoglitori spiccavano i grappoli dalla vite e li ponevano in cesti di vimini che, una volta riempiti, scaricavano nella brenta più vicina. La brenta serviva anche per il trasporto del mosto dalla vasca di pigiatura alla botte e durante il travaso da una botte all’altra.
Oltre a dare il nome all’oggetto, ‘brenta’ era anche l’unità di misura espressa dalla capienza stessa, corrispondente a Parma a circa 47 litri (35 a Cremona, 63 a Modena). Il possesso delle brente, riempite d’acqua anziché di vino, consentiva anche di compiere operazioni di spegnimento degli incendi e funzioni di pulizia delle strade e delle piazze. Nella Parma medievale i facchini specializzati nel trasporto del vino, ma anche assaggiatori e dazieri, riuniti nell’Arte dei Brentatori, si adunavano nella chiesa di San Pietro, come testimonia la duecentesca Cronica di Salimbene de Adam.