Nel Vocabolario Piacentino-Italiano di Lorenzo Foresti del 1836[1] l’uga (uva) angila è tradotta in italiano come uva angiola.
Filippo Re[2] nel 1812 fra le varietà d’uva bianche coltivate nel bolognese indicò l’uva angiola: Vitis v. angelica?[3].
Nel 1818, lo stesso Filippo Re [4], spiegava esaurientemente come l’uva da serbo venisse conservata per l’inverno: “La conservazione dell’uva fresca è sempre stata un oggetto rilevante per le reggitrici della famiglie, e sonosi studiate molte cautele. E’ noto come qui in Bologna trovasi in giugno dell’uva colta l’anno innanzi, ed in assai buono stato. Non lasciai sin dai primi momenti nei quali venni qui, di ricercare quali fossero gli avvertimenti che si costumano per protrarne tanto a lungo la durevolezza. Essi sono semplicissimi e tali che da principio temetti che mi se ne volesse fare un segreto. Due solamente sono le specie che si conservano: l’uva paradisa che io penso essere quella che il Crescenzio descriveva col nome di garganica e l’uva angiola. Hanno ambedue la buccia molto grossa. Si raccolgono di bel mezzogiorno in giornate asciutte e serene. Non si ripone un grappolo che non sia tutto sano. Stesi i grappoli su cannicci o stuoje, stanno chiuse entro un oscurissima stanza, nella quale non si penetra che ogni tanti giorni per visitare l’uva e per nettarla se alcun grappolo abbia sofferto. Qui sta tutto l’affare. In generale però tornerebbe il tenere i grappoli, che si vogliono conservare, appesi a fili e cordicelle, isolando però e grappoli e sostegni, onde si trovino posti in modo da potere in ogni senso non essere in contatto con altri. Alcuni li dispongono a palchetti di regoli che sono attaccati al soffitto, e si possono alzare e abbassare per ripulirli. Quindi uva di buccia grossa ben asciutta, luogo asciutto e riparato dal caldo, dal freddo, dall’umido insieme con la polizia sono le condizioni per ottenere l’intento. “[5]
Nei territori estensi l’angiola è citata dal Roncaglia[6] nel 1847 fra le uve bianche comuni dei territori cispennini[7]. Il 14 settembre 1820 Giorgio Gallesio[8], nel corso dei suoi viaggi, si trovò a Faenza dove scorse l’uva angiola, sinonimo, per Gallesio di uva regina[9]. Il 17 settembre del 1839, Gallesio, di nuovo di passaggio da Faenza, scrisse che: “L’Angiola è un’uva a grappoli né fitti né spargoli, cilindrici, ad acini grossi un poco meno di quelli della Regina, ovati, di un bianco -giallognolo sfumato di giallo come il Vermentino[10].
Nel 1841, il modenese Luigi Savani[11], pubblicò una memoria sulla coltivazione della vite, già edita in precedenza, nella quale, fra le uve bianche da tavola, presenti nei territori modenesi, citava l’uva Angiola, detta anche dell’Abate[12].
Nel 1825, Acerbi[13] indicava l’uva angioli fra le uve coltivate nei contorni di Bologna, nonché presente nel suo campo-catalogo di Castelgoffredo di Mantova[14].
Nel 1845, la rivista “Il Felsineo”[15], riportava il termine dialettale bolognese dell’uva angiola: anzla, vitis angelica?
Rovasenda[16] indicava l’uva Angela[17], forse identica all’Angiola, e rimandava a Soderini ed all’album fotografico ed ampelografico di Trento. Sempre Rovasenda, nel citare l’uva Angiola bianca[18], indicava Bologna, quale territorio nel quale era coltivata, giudicandola una delle migliori uve da tavola e di conserva per l’inverno; un’altra denominazione probabilmente era: dell’Angiola bianca?[19] (Bologna?).
Viala[20] citava Rovasenda, per il quale l’angiola bianca era un’uva da tavola di Bologna[21].
Nella prima edizione di L’economia del cittadino in villa di Vincenzo Tanara[22] risalente a poco prima della metà del XVII secolo, l’autore citava l’uva angiola, insieme ad altre due varietà, come le migliori uve da serbo: “L’Uva Checca, Angela, Paradisa, sono le migliori sopra le stuoie, pe’l verno, e la Primavera, che viene, e di questa se ne manda quantità a Venetia e in altre parti”[23].
Per quanto riguarda l’uva paradisa si rimanda alla scheda dell’uva d’promissiòn.
L’uva angiola era citata alla fine XIV secolo dal novelliere fiorentino Franco Sacchetti, nella novella 177[24]: “Il piovano dell’Antella di Firenze sente, che Messer Vieri de’ Bardi fa venire magliuoli da Corniglia, truova modo quando vengono, gli fa scambiare e togli per lui, e quello che seguita“[25].
I maglioli di preziosa Vernaccia di Corniglia, una volta giunti da Portovenere a Firenze, furono sostituiti nascostamente dal piovano di Antella, con varietà di uve che costituivano: “(…) due pergole d’uve angiole e verdoline e sancolombane e altri vitigni“[26].
La novella 177 di Sacchetti costituisce una preziosa testimonianza della presenza, alla fine del Milletrecento, delle quattro varietà di uva citate dall’autore.
Note
- Foresti Lorenzo, Vocabolario Piacentino – Italiano, Piacenza, Fratelli Del Majno Tipografi, 1836, p. 401
- Rapporto a sua eccellenza il sig. Ministro dell’Interno sullo stato dell’Orto Agrario della R. Università di Bologna, Milano, Giovanni Silvestri, 1812.
- Id. p. 47.
- Re Filippo, Nuovi elementi di agricoltura, volume III, seconda edizione, Milano, Giovanni Silvestri, 1818.
- Id. pp. 307 – 308.
- Roncaglia Carlo, Statistica Generale degli Stati estensi, volume II, Modena, tipografia di Carlo Vincenzi, 1850.
- Id. p. 420.
- Gallesio Giorgio, I giornali dei viaggi, Firenze, Accademia dei Georgofili, 1995.
- Id. p. 191.
- Id. p. 408.
- Savani Luigi, Istruzione pratica per la coltivazione della vite, in: Memorie varie risguardanti la migliore agricoltura, Modena, Tip. Vincenzi e Rossi, 1841, pp. 63-114.
- Id. p. 69.
- Acerbi Giuseppe, Delle viti Italiane, Milano, Giovanni Silvestri, 1825.
- Id. p. 294.
- “Il Felsineo”, 04/03/1845, a.5, n.40
- Rovasenda Giuseppe, Saggio di una ampelografia universale, Torino, Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1877.
- Id. p. 23.
- Id.
- Id. p. 61.
- Viala P., Vermorel V., Ampélographie, tome VII, Paris, Masson et C., 1909.
- Id. p. 26.
- Tanara Vincenzo, L’economia del cittadino in villa, Bologna, Per gli H. H. del Dozza, 1648.
- Id. p. 40.
- Sacchetti Franco, Delle novelle, parte seconda, Firenze, 1724, n. i., Novella CLIIVII, pp. 89-93.
- Id. p. 89.
- Id. p. 90.