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Questo servizio è stato realizzato grazie al sostegno di Fondazione Cariparma

Il Museo del Vino dei Colli di Parma fa parte del circuito dei Musei del Cibo della provincia di Parma e propone un viaggio alla scoperta della storia e delle curiosità legate al vino del territorio.
Il percorso espositivo inizia presentando la nascita e l’evoluzione del vino nella storia.
L’impossibilità di disporre di acqua “sicura” da bere, ha spinto l’uomo, fin da tempi remoti, a produrre bevande fermentate (birre, vino) che grazie all’attività di ceppi batterici “buoni”, garantissero la salubrità delle bevande.
È nel Neolitico che si verificano tutti i presupposti necessari per la produzione del vino. Gli storici sono concordi nell’affermare che risale a questa epoca la prima domesticazione della vite selvatica e l’attività di vinificazione su larga scala, definendola “ipotesi di Noè”, perché il primo gesto del patriarca biblico, sceso dall’Arca dopo il diluvio universale, fu l’impianto di una vigna (Genesi 9,20) nella zona del monte Ararat (nell’attuale Turchia).
La vetrina espone vasi di origine greca e romana utilizzati per il consumo del vino. La Kylix, coppa piatta a due manici (esemplare in ceramica attica del V secolo a.C.), era usata per bere il vino, dopo averlo allungato con acqua per ridurne il grado alcolico e dopo averlo scaldato con le mani per liberare gli aromi della resina, utilizzata come conservante naturale.

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Di particolare interesse un dolium vinario e due coperchi – scarti di fornace – provenienti dagli scavi di Fidentia romana.
I dolia erano grandi contenitori in terracotta di forma tondeggiante nel quale i Romani conservavano liquidi (olio o vino) e solidi (grano, legumi). Del diametro medio di un metro e mezzo avevano una capacità variabile da mille a duemila litri. Interrati fino al colletto – come visibile dalle foto e dalle immagini di ricostruzione – costituivano dei veri e propri silos per lo stoccaggio delle derrate alimentari.

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Sulla pedana sono esposte alcune anfore provenienti da scavi del Parmense.
Le anfore furono il più diffuso contenitore da trasporto per le derrate alimentari del mondo romano: soprattutto vino e olio d’oliva, ma anche olive, fave, salse a base di pesce (garum), grano, frutta e altri alimenti venivano movimentati con questi contenitori.
Esistono tantissime varietà di anfore, classificate in base a diversi criteri: luogo di provenienza, forma, epoca di fabbricazione. Le anfore esposte, ritrovate a Parma, testimoniano l’importazione di vino dall’Italia centro meridionale fino al I secolo a.C., quando il cambiamento del clima rese possibile la coltivazione della vite anche nel Parmense. Sotto la finestra sono esposti frammenti di anfore provenienti da un cumulo di scarti della fornace di epoca romana attiva a Sala Baganza nel I secolo a.C.

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I pannelli e gli oggetti esposti provenienti dagli scavi del parmense testimoniano come sia nato in questa zona il modo “moderno” di bere il vino, introdotto dalle popolazioni celtiche che qui vivevano prima della conquista romana. Poiché il clima impediva la coltivazione della vite, gli abitanti di queste terre producevano “birre” ottenute dalla fermentazione di frutta, sambuco, corniole, sorbe, more da rovo… consumate schiette (cioè senza diluizione con acqua) in “bicchieri” in vasellame dal corpo alto e svasato, che permetteva di “tagliare” la schiuma eliminando contestualmente le impurità. Una volta introdotta la coltivazione della vite nella Cisalpina, i Celti continuarono ad utilizzare gli stessi contenitori e a consumare il vino con le stesse modalità, in maniera nuova e assai diversa dall’uso dei greci e dei romani, e introducendo il modo “moderno” di gustare il vino che ancor oggi noi utilizziamo. La vetrina mostra un esemplare di “bicchiere” in ceramica del VI secolo a.C., proveniente da Golasecca e due preziose caraffe in vetro soffiato del II secolo d.C., di provenienza cipriota, usate per servire il vino in tavola, trovate dagli archeologi negli scavi della necropoli romana di San Pancrazio, presso Parma. Le immagini dei pannelli mostrano vari insediamenti vinicoli scoperti dagli archeologi nel Parmense che, per la vicinanza al Porto di Luni, raggiungibile attraverso il valico del Valoria (attuale Passo della Cisa) era zona privilegiata di approvvigionamento per la capitale. Da Luni, via nave, le derrate giungevano a Ostia navigando sotto costa in pochi giorni e, da qui, ai mercati di Roma lungo il Tevere.
Proseguiamo ora il percorso nella seconda sala, che approfondisce i temi legati alla coltivazione della vite nel parmense.
Il filmato documenta un anno di lavoro nella vigna, dalla primavera all’inverno inoltrato, e mostra gli attrezzi impiegati nei campi e in cantina.

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La vite è una liana, capace di svettare sulla cima di grandi alberi o di arrampicarsi, grazie agli organi prensili, su rocce e sui pendii. È una pianta perenne, con un ciclo vitale anche plurisecolare. I vigneti moderni, però, per garantire la produttività, non superano i 20-25 anni.
La vitis vinifera è una specie molto ricca di variabilità (polimorfa). Partendo dalla forma selvatica, poco variabile, l’uomo ha selezionato nei millenni moltissime varietà con frutto dalle caratteristiche differenti, adatte alla vinificazione, al consumo fresco o alla essiccazione nei vari terreni e habitat.
Il clima rigido e l’umidità del terreno hanno da sempre impedito nella pianura padana la coltivazione della vite rasente il terreno, come nelle regioni mediterranee e hanno richiesto invece l’innalzamento della pianta grazie a sostegni, che potevano essere pali o alberi vivi.
Il sistema di “maritare” le viti agli alberi tutori – pioppi, aceri campestri, olmi, gelsi, oppi – anziché lasciare la pianticella a terra, è ricordato da Columella e da Virgilio ed è noto come “piantata”.
Tale sistema, di origine etrusca, prevedeva la disposizione delle viti “maritate” a filari di alberi (nella convinzione che la linfa degli alberi salvasse le viti dalle gelate) lungo i bordi dei campi, che accoglievano colture diverse a rotazione.

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I pannelli luminosi presentano alcune testimonianze visive della coltivazione della vite nel Parmense dal Medioevo fino al secolo scorso. Dopo il crollo dell’Impero romano e le invasioni barbariche, l’uso della birra prevalse e molte vigne vennero abbandonate. Solo i monasteri proseguirono la coltivazione delle viti per le necessità liturgiche e da qui, nel Medioevo, si diffuse nuovamente. Ne sono tracce le sculture di Benedetto Antelami nel ciclo dei mesi nel Battistero di Parma, i pergolati dipinti di epoca rinascimentale, le vedute dei viaggiatori stranieri in Italia per il “Grand Tour”, le sculture di Jean Baptiste Boudard nel Parco Ducale abbellito dai Borbone nel Settecento. Vanno ancora ricordati il notevole “Trattato delle viti” manoscritto del XVIII sec. conservato presso l’Archivio di Stato di Parma, l’interesse di Giuseppe Garibaldi per le piante di Malvasia di Maiatico, da lui trapiantate a Caprera, l’attività agricola di Giuseppe Verdi, l’impianto dei primi vigneti specializzati sui colli di Torrechiara e di Sala.

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Sulla pedana al centro della sala sono esposti attrezzi e oggetti d’uso del secolo scorso per la coltivazione della vite: pompe per l’irrorazione del verderame su ruota e a spalla, un bilanciere con i secchi per l’irrigazione, una brenta per il trasporto dei grappoli, cassette in legno per la raccolta e stadera per la pesatura dell’uva.

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Nella vetrina incassata a parete sono esposti gli attrezzi – varie tipologie di zappe e vanghe – utilizzati dai contadini per la cura del terreno della vigna e i piccoli arnesi – cesoie, roncole, pennati, pinze e strumenti per gli innesti – impiegati per la cura quotidiana delle piante.

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A fianco è visibile un pregevole modello in vetro soffiato del XIX secolo di grappolo di Malvasia aromatica di Candia.
Questa varietà, proveniente dall’isola greca di Monenvasia, da cui deriva il nome, si è ambientata perfettamente sulle colline di Sala Baganza, contribuendo a caratterizzarne il paesaggio.
Proseguiamo ora il percorso nella terza sala, che approfondisce i temi legati alla produzione del vino nel parmense.

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La sala presenta le attrezzature necessarie per la produzione del vino. La vendemmia avviene tra settembre e ottobre, prima per le uve bianche e poi per quelle nere. L’operazione impegna tutta la famiglia contadina, donne e ragazzi compresi. Nel pomeriggio i grappoli vengono raccolti in cesti di vimini o nelle brente e portati a capo della vigna dove si trova un carro con le sponde in cui vengono versati i canestri. L’uva raccolta viene distesa su di un “tavolazzo” di legno nell’aia e lasciata per non più di quattro giorni al sole e di notte coperta.
La pigiatura con i piedi avviene ancora una volta con la partecipazione di tutta la famiglia, in particolare le donne. Il cantiniere esperto, invece, non sale sul pigiatoio, ma segue le fasi più delicate, come l’apertura e la chiusura della piccola paratoia attraverso la quale esce il mosto, cioè il vino misto ai vinaccioli che è raccolto in un bigoncio e riversato nei grandi tini dove il giorno seguente viene rivoltato per favorirne l’uniforme fermentazione.

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Il lungo pannello propone tracce della storia del vino nel parmense dal Medioevo fino al secolo scorso. Il ciclo dei “mesi” scolpiti da Benedetto Antelami presenta un artigiano che prepara le botti e il vignaiolo intento a vendemmiare. Figure simili compaiono anche nel più antico portale della Cattedrale di Parma. Viene ricordato il miracolo del vino operato dall’Abate del monastero di San Giovanni nel 987 d.C. e testimoniato da un dipinto e il ruolo dei brentatori, addetti in epoca medievale al trasporto di uva e vino al mercato e incaricati dello spegnimento degli incendi (nell’angolo della sala è visibile un esemplare di brenta). Sono poi ricordate le citazioni dei vini parmensi da parte di Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III Farnese, i banchetti a bordo del burchiello, nave di delizia dei Borbone che veleggiava sul Po, le scorte enologiche alla corte di Maria Luigia.

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Attrezzi e oggetti antichi esposti sulla pedana che costeggia la sala raccontano la preparazione del vino dalla pigiatura alla bottiglia: partendo da destra, la “nave” per la pigiatura pedestre dell’uva, o il più moderno torchio, una brenta, damigiane e fiaschi, un imponente tino per la fermentazione del mosto costruito nel 1922 con i relativi attrezzi, botticelle e mastelli, pompe per il travaso.

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Al centro della sala, lungo la pedana, sono esposti gli attrezzi impiegati per l’imbottigliamento del vino.
Le bottiglie vengono prima pulite con l’apposita spazzolatrice meccanica, sciacquate e collocate a collo in giù sullo sgocciolatoio per meglio asciugare.
Successivamente vengono riempite con l’imbottigliatrice a tre becchi e quindi inseriti i tappi di sughero nel collo della bottiglia con una macchina a pistone. Il Museo ne presenta una interessante serie, di varie epoche, in legno e metallo, con diversi gradi di automazione. Sono visibili anche una pregevole serie di bottiglioni da cantina in vetro soffiato, provenienti dalle vetrerie Bormioli di Parma e i cestini per il trasporto delle bottiglie dalla cantina.

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In una nicchia del muro è riprodotta la targa dipinta che ancor oggi si trova sulla porta della cantina del monastero di San Giovanni evangelista di Parma. Il testo in un latino abbastanza comprensibile ricorda: “Di qui si scende alla cantina. Bada di non risalirne barcollante!”.

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La vetrina verticale presenta una serie di piccoli attrezzi per le attività di cantina: due esemplari di alzavino (l’ampolla in vetro soffiato, detta comunemente “ladro”, usata per prelevare il vino direttamente dall’apertura della botte per saggiarne il grado di maturazione), un imbuto in vetro, un raro colmatore in vetro; candelieri e lucerne da cantina, ciotole in legno e ceramica per gli assaggi; tappi e rubinetti in legno da botte, sgasabotti, cavastracci, cavatappi e cavaturaccioli a catena, levaolio e brocca in vetro.

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Vengono riprodotte due tavolette di ex voto dipinti, del XVII e XIX secolo, provenienti dal Santuario della B. V. di Fontanellato, nel Parmense, le cui vicende sono legate al vino e alla cantina e che testimoniano la vita quotidiana del tempo.
Scendiamo ora verso l’affascinante ghiacciaia.

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Costruita nel 1723 all’epoca di Antonio Farnese per garantire la conservazione della neve durante l’intero arco dell’anno, il grande ambiente ipogeo con volta a botte, veniva riempito di neve nell’inverno dal finestrone visibile verso Ovest e consentiva di conservare la cacciagione proveniente dalla vicina Tenuta dei Boschi e di rinfrescare il vino. Lungo la scala si scorge a sinistra il primo affaccio, usato per accedere alla ghiacciaia quando il livello della neve era più alto. Qui sono esposti alcuni tronchi centenari di viti parmensi.
Scendendo la scaletta in cotto, si raggiunge il livello più basso della ghiacciaia. Proseguendo lungo la pedana in legno si attiva la proiezione a 360° che narra il ruolo della vite e del vino nella mitologia, nella storia e nell’arte.
Risaliamo alla sala 3 e, uscendo dalla porta, attraversiamo il fossato della Rocca per introdurci nella sala 5 dedicata alle botti.

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La parete di ingresso, ai lati della porta, è rivestita da botti che recano scritte le definizioni dei principali termini legati alla coltivazione della vite e alla produzione del vino, quasi un “dizionario” tridimensionale della cantina. Le varie sezioni della sala ci portano a conoscere tutto quanto “gira” intorno al vino: botti, bottiglie, tappi, cavatappi ed etichette vengono illustrati dai pannelli e dagli oggetti esposti.

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L’uso della botte in legno è noto già in epoca preistorica per poi subire una notevole evoluzione assumendo la nota forma “panciuta” nel mondo Greco-Romano dal IV sec. d.C.
Il geografo greco Strabone ricorda come i popoli celtici che vivevano nella cispadana realizzavano botti grandi come case (che in realtà erano semplici capanne). Dopo un periodo di crisi nella tarda antichità, la produzione delle botti ebbe nuovo sviluppo nel Medioevo quando si diffuse in tutta Europa come container per le merci liquide e solide più svariate. Anche i libri prodotti dalle tipografie veneziane viaggiavano protetti entro botti, impermeabili all’umidità e alla salsedine dei viaggi marittimi. Nella sala è esposta una botte in rovere di grandi dimensioni utilizzata per la maturazione del vino in cantina.
Nel corso del tempo, a fianco del legno, vennero introdotti nuovi materiali di produzione come cemento, ferro smaltato e vetroresina nel ’900.

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Il bottaio era un artigiano che riuniva le competenze di un falegname e di un fabbro, strettamente legato al mondo contadino.
Le botti per poter resistere alla pressione dei liquidi in fermentazione e agli spostamenti, richiedevano lunghi periodi di fabbricazione, grande precisione e particolari abilità costruttive.
Nella vetrina sono esposti alcuni attrezzi provenienti da una bottega di bottaio del territorio parmense. Grandi immagini di Remo Lottici di Noceto, l’ultimo bottaio parmense e un video con le varie fasi di produzione delle botti completano la sezione.

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La vetrina propone una selezione di contenitori da vino. Dall’alto sono esposte alcune caraffe in ceramica smaltata databili dal XIII al XVI secolo, provenienti da Fidenza, dagli scavi del castello di Basilicanova e dal castello di Berceto; la “Cosèta d’or”, tradizionale ciotola in legno duro tornito usata per l’assaggio del vino, simbolicamente utilizzata dalla Pro Loco di Sala Baganza a partire dal 1996 per premiare persone e Istituzioni che si sono distinte nella valorizzazione dei vini del territorio; bicchiere in vetro e ciotole da vino in legno tornito e ceramica; caraffe da vino; bottiglia da vino in cristallo molato con bicchieri; misure da vino in vetro soffiato del XIX secolo di produzione parmense.

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Le prime tracce di contenitori in vetro per liquidi risalgono al I secolo d.C., quando gli artigiani dell’attuale Siria misero a punto la tecnica della soffiatura. Nel XIV secolo il fiasco – ampolla in vetro soffiato con protezione in paglia – vide la luce e ampio impiego in Toscana. La diffusione della bottiglia in Europa si registra intorno alla metà del Cinquecento, grazie alla attività delle fornaci di Murano. Ma è in Inghilterra che l’uso del carbone per alimentare gli altoforni – imposto dal vincolo posto sul legname, indispensabile all’industria navale – porta alla produzione di bottiglie scure, più spesse e robuste, che diventano così il contenitore ideale per il trasporto del vino. Alla fine dell’Ottocento veniva messa a punto la tecnologia della colatura a pressione in stampi (dal 1898 con macchine semiautomatiche, dal 1905 con automatiche a bacino rotante e dal 1917 con automatiche alimentate da gocce di vetro fuso, visibili anche nel video) che oggi, completamente automatizzata, consente la produzione seriale e a basso costo di bottiglie di qualità in numerose forme e dimensioni.

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La leggenda vuole che Dom Perignon, il monaco francese che mise a punto il sistema di produzione dello Champagne, avesse l’intuizione di usare i tappi in sughero copiando dai pellegrini spagnoli l’uso del turacciolo per sigillare le borracce da viaggio. In realtà il sughero è impiegato già in epoca romana e la sezione ne presenta modalità di produzione ed estrazione. Sono anche visibili le varie tipologie di tappo di sughero oggi esistenti.
In Italia la prima produzione moderna di tappi in sughero, nella regione sarda della Gallura, è documentata tra il 1860 e il 1861 da piantagioni di querce da sughero impiantate intorno al 1830. L’Italia, oggi al terzo posto tra i produttori mondiali, trasforma circa un miliardo e mezzo di tappi di sughero destinati al settore vinicolo, che assorbe il 70% della produzione naturale.

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La sua origine potrebbe essere databile alla metà del XV secolo, probabilmente derivata dall’attrezzo a spirale usato dai soldati per rimuovere le palle di piombo incastrate nelle canne dei fucili ad avancarica. Anche Leonardo da Vinci lascia un disegno per un modello di cavatappi. La diffusione ampia e capillare del cavatappi si registra solo dopo la metà del Seicento, con l’uso di invecchiare il vino in bottiglia promosso dagli inglesi e legato alla tecnologia di produzione delle bottiglie “nere” più robuste e regolari. La sezione propone una storia dello strumento, mostra gli elementi costitutivi e le varie tipologie, esposte nella vetrina.
Da destra a sinistra si incontrano i cavatappi “semplici” a forma di “T”; i cavatappi “a meccanismo”, che agevolano l’estrazione attraverso accorgimenti meccanici; quelli a leva; quelli tascabili; quelli multiuso, che affiancano altri attrezzi al verme di metallo; e infine quelli figurativi, spesso opera di design e di creativi.

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Lo spazio della cantina, con il suo clima particolare, la penombra silenziosa e l’ambiente sotterraneo, ha da sempre suscitato storie e racconti. I pannelli posti prima della Sala 6 propongono immagini e narrazioni tratte da due lunari parmigiani dell’Ottocento che alla scansione dei mesi dell’anno affiancano una certa dose di satira ed ironia: il coro degli animali in cantina e un giovane Bacco a cavalcioni della botte.

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Elemento essenziale nella attuale cultura del vino, pur essendo già presente nell’antichità – come scritte dipinte sulle anfore – o in epoca storica – come cartigli di metallo o strisce manoscritte da applicare ai vari contenitori – l’etichetta, come oggi la conosciamo, viene concepita nel XVIII secolo con l’avvento dell’uso della bottiglia in vetro per conservare il vino. Inizialmente prodotta con la stampa tipografica ad un solo colore, con l’avvento della litografia, a partire dal 1836 si veste di colori e di forme, per giungere alla raffinatezza grafica e al design dei nostri giorni. Il secondo pannello mostra alcuni esemplari di etichette di vini parmensi del Novecento, fra cui quelle disegnate da Giovannino Guareschi, “papà” di Peppone e Don Camillo, per la sua Locanda di Roncole Verdi.

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L’ultima sala del percorso propone un approfondimento dedicato alla viticultura parmense fra Otto e Novecento, rievocando i pionieri del settore e i personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo che hanno scritto e parlato del vino parmense. Il touch screen permette di conoscerne i volti e le vicende.

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L’eccellenza del vino parmense è testimoniata già nell’Ottocento, oltre che da documenti e memorie, dalla presenza di alcune preziose bottiglie secolari, con i loro relativi cartigli manoscritti, provenienti dalla cantina di Casa Basetti a Vairo e prodotte nel corso dell’Ottocento a Monte delle Vigne. A sinistra una eccezionale bottiglia proveniente dal Recinto di Felino e prodotta da Henri Caumont, pluripremiata a Londra e Parigi.
Sono un segno raro e pregevole del lavoro di quei pionieri, appassionati e sensibili, che seppero innalzare il nome di Parma nel mondo già dalla metà del XIX secolo. Una fama che la diffusione della fillossera negli anni Venti del Novecento, di fatto azzerò e che solo in tempi recenti, e con nuove consapevolezze, ha ripreso il suo cammino.

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La vetrina superiore propone una selezione dei vini prodotti dalle aziende aderenti al Consorzio dei Vini dei Colli di Parma. Fra queste la pregevole bottiglia appositamente creata per celebrare la “Parma-Poggio di Berceto”, corsa di regolarità per auto storiche che si tiene ogni anno sul territorio. Il touch screen permette di conoscere le varietà dei vitigni coltivati e le tipologie di vini prodotti, di localizzare le aziende produttrici sulla mappa e di approfondirne la storia, di consultare l’albo d’oro dei vincitori del Premio “Cosèta d’or” attribuito alle migliori malvasie del territorio.

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La visita si conclude idealmente con l’assaggio dei vini e dei prodotti del territorio nella sala degustazione annessa al museo, arredata con oggetti storici legati alla produzione del vino. La parete occidentale del cortile presenta una serie di pannelli grafici dove viene presentato il vino nella mitologia e nell’arte. Un pannello con un simpatico Bacco bevitore invita a scattare una foto ricordo da inviare agli amici. Al termine del percorso meritano sicuramente una visita anche il giardino storico della Rocca, raggiungibile dal fossato e ad accesso libero, e le sale monumentali della Rocca, con scene mitologiche e allegoriche affrescate da Orazio Samacchini e Sebastiano Galeotti.
Il circuito dei Musei del Cibo propone altre visite interessanti: a 10 minuti d’auto il Museo del Salame Felino, ospitato nelle affascinanti cantine del Castello. A 15 minuti d’auto, attraversato il Parco regionale dei Boschi di Carrega, si trova la Corte di Giarola, antica grancia benedettina che accoglie i Musei della Pasta e del Pomodoro.
Grazie per essere stati con noi e buona permanenza nella terra di Parma.

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